Federico Fubini è inviato ed editorialista di economia del Corriere della Sera, di cui è vicedirettore ad personam. Autore di numerose pubblicazioni, ha vinto il Premio Estense con Noi siamo la rivoluzione (Mondadori 2012) e il Premio Capalbio e il Premio Pisa con La maestra e la camorrista (Mondadori 2018). Nel 2019 ha pubblicato con Longanesi Per amor proprio. Perché l’Italia deve smettere di odiare l’Europa (e di vergognarsi di sé stessa) e nel 2024, ancora per Mondadori, L’oro e la patria. Autore della serie di podcast “Perché l’economia” pubblicata da Audible, come giornalista ha anche vinto il premio State Street per il giornalismo finanziario (2014) e il premio Guidarello (2021).
I Kennedy sono stati l’emblema del rinnovamento (il mito della nuova frontiera), della lotta per i diritti civili, della speranza di una vita migliore per tutti, del progresso tecno-scientifico, della modernità negli anni ’60; un “modello” che ha molto da dire alle derive populiste di questo XXI secolo in diverse parti del mondo e ai suoi diversi rappresentanti, che tengono quantomeno in sospetto le organizzazioni umanitarie e alzano muri alle frontiere. È quel che sta avvenendo anche dentro l’America: cos’è successo nei sentimenti della popolazione? Da dove origina questo malessere sociale così profondo? È solo una questione di perdita di potere d’acquisto?
In base ai dati ufficiali hanno perso potere d’acquisto i redditi sostanzialmente di tutta la società, almeno fino al 5% delle famiglie con il più alto reddito. Perché, in termini nominali, dalla metà degli anni ’60 circa il reddito delle famiglie del 5% più ricco, quelli che sono nel 95% nella distribuzione verso l’alto, è cresciuto circa 16 volte in termini nominali di dollari.
Chi sta nel 5% più ricco, cioè nel 95° percentile basso, 5° percentile dall’alto, dal ’67 ha visto il suo reddito patrimoniale crescere di 16 volte. Il prezzo dell’abitazione media è salito di 24. Dunque ha perso il potere d’acquisto di una casa.
Il costo dell’assicurazione sanitaria privata è cresciuto di 70 volte, le spese sanitarie out of pocket sono cresciute di 100 volte, il costo dell’acquisto di un’auto di modello medio-familiare è salito più o meno come il reddito. Il costo del college è passato, per le persone che sono nel top five percent, dall’11% a quasi il 16% del reddito annuo.
Dalla seconda metà degli anni ’60 le persone, 1 su 20 in termini di reddito, hanno visto il loro potere d’acquisto ridursi fortemente per le spese più importanti: casa, educazione dei figli, sanità. Ovviamente questo effetto è molto più forte per tutti quelli che stanno sotto. Per esempio, per quelli che stanno nel top 60%, nel quarantesimo percentile dal basso, cioè per quel 40% delle famiglie che guadagna meno, e per il 60% di quelli che guadagnano di più, il costo del college cresce dal 37% all’80% del loro reddito annuo, il loro reddito è cresciuto la metà del prezzo delle case, ed è cresciuta una piccola frazione del costo dell’assicurazione. Dunque, sostanzialmente è successo che tutti stanno peggio, sono pochissimi quelli che stanno meglio.
Secondo me il cuore della questione è la perdita del potere d’acquisto, che però è un sintomo, non la causa. È il sintomo di una prevalenza del denaro sulla politica, per cui, per esempio, la sanità dal punto di vista delle assicurazioni è totalmente dominata dalle assicurazioni private che hanno esercitato un’azione di lobby molto forte. La riforma di Obama voleva rendere l’assicurazione di sanità pubblica più abbordabile, sia per i redditi medi che per quelli medio-bassi. La tassazione del private equity è un provvedimento che va a vantaggio di queste persone. È documentato che il private equity che possiede e gestisce ospedali offre percentuali molto peggiori in termini di esiti sanitari a fronte di costi molto alti.
Si potrebbe continuare con vari esempi: nello stesso costo del college c’è chiaramente un cartello che ha avuto successo, così come gli stessi fondi di private equity sono azionisti molto rilevanti di tutte le compagnie aeree principali, perché anche lì c’è un cartello. La legalizzazione di qualunque forma di finanziamento della politica da parte di interessi organizzati di fatto è una legalizzazione di forme di corruzione. Tutto questo ha generato fortissimi squilibri nella distribuzione del reddito, della ricchezza, alimentati ulteriormente più che dal commercio internazionale, dalla tecnologia, che naturalmente premia molto di più alcune categorie ristrette di persone e meno tutti gli altri. Tutto questo ha generato nella società un forte senso di rivolta molto sensibile alle sirene del populismo, come vediamo oggi.
Nel famoso discorso del 18 marzo 1968 sul Pil, Bob Kennedy denunciava i rischi di concepire lo sviluppo del Paese solo in funzione economica, perdendo di vista i valori essenziali immateriali, quelli che fanno realmente il benessere di un Paese. Oggi per far tornare grande l’America pare che lo sviluppo vada concepito alla Old Wild West, cioè dollari e forza muscolare. È l’ottica in cui per esempio Trump usa i dazi come una Colt per riequilibrare rapporti commerciali a suo dire svantaggiosi per gli Usa. Lei dalle pagine del Corriere del 3 febbraio argomenta che i dazi si traducono in un «complotto contro l’America». Perché?
Sono un complotto contro l’America perché non fanno l’interesse della maggior parte degli americani. Rendono più costosi i prodotti importati dall’estero e gli input produttivi americani importati dall’estero, provocando inflazione, che è effettivamente quello che stiamo vedendo: un aumento dell’inflazione e un calo della crescita. Nella prima metà dell’anno la crescita negli Stati Uniti è stata meno della metà dell’anno scorso, e l’inflazione sta risalendo da mesi. In questo senso i dazi non fanno l’interesse degli americani, ma sono un complotto contro l’America.
Gli anni ’60 erano il tempo della cortina di ferro a Est dell’Europa. Tra Usa e Urss era un continuo braccio di ferro su scala mondiale. Rischiammo il conflitto atomico con Cuba. L’Europa era alleata di ferro dell’America e JFK diede un impulso formidabile alla sua pacificazione e alla riunificazione delle due Germanie con il famoso discorso di Berlino. Ora sembra che le prospettive di un “nuovo ordine mondiale” puntino a ristabilire “zone di influenza” tutte a scapito delle relazioni con l’Ue anche da parte Usa. Trump sostiene che l’Europa «fotte l’America», lei ha scritto che non è vero…
Non è vero che c’è uno squilibrio commerciale tra gli Stati Uniti e l’Unione europea. Nei beni l’Europa ha sicuramente un surplus negli scambi con gli Stati Uniti, ma nei servizi è vero il contrario: gli Stati Uniti hanno un fortissimo surplus nei confronti dell’Unione europea e in particolare dei Paesi dell’area Euro.
Questo perché l’esportazione di servizi digitali degli Stati Uniti verso l’Europa è salita moltissimo, e non lo si vede nella bilancia commerciale, ma nella bilancia delle partite correnti e degli scambi finanziari, dove emerge un fortissimo trasferimento di fondi a titolo di cessioni da parte delle aziende americane di licenze o diritti di proprietà intellettuali per l’uso di software, per esempio, e in parte anche per farmaci.
Questo è determinato dal livello altissimo di elusione fiscale che le grandi multinazionali americane stanno riuscendo a realizzare attraverso l’Europa sulle loro vendite, non solo in Europa, ma anche nel Golfo e in Africa. Bisogna guardare molto bene la bilancia delle partite correnti per capire come mai questo sia possibile.
Queste aziende, le grandi aziende del digitale e 4 grandi aziende farmaceutiche americane, hanno le loro filiali in Irlanda, da dove forniscono formalmente l’Europa e gli altri mercati in Medio Oriente e Africa. Per fornire questi mercati, dal punto di vista commerciale operano una cessione di diritti o affitti delle licenze delle proprietà intellettuali per i software e i brevetti farmaceutici. Dunque le filiali irlandesi di quelle aziende pagano enormi diritti di proprietà intellettuale alle case madri negli Stati Uniti, e avendoli acquisiti vendono questi servizi in Europa, in Medio Oriente e in Africa.
Ma riconoscendo i diritti delle licenze di proprietà intellettuali per centinaia di miliardi alle loro case madri abbattono enormemente la base imponibile, e finiscono per pagare tasse bassissime o pressoché inesistenti in Europa.
Ora, naturalmente, poiché hanno trasferito centinaia di miliardi alle case madri negli Stati Uniti a titolo di diritti di proprietà intellettuali, queste tasse dovrebbero essere pagate dalle case madri negli Stati Uniti con la tassazione al 21%, l’aliquota in vigore per gli utili delle società. Ma questo non avviene perché la riforma fiscale passata dall’amministrazione di Donald Trump nella sua prima presidenza e confermata poi nella sua seconda presidenza, permette a queste società di avere un’aliquota particolarmente bassa sugli utili realizzati grazie ai diritti di proprietà intellettuali.
Dunque, sostanzialmente, queste grandi multinazionali eludono il fisco in Europa e poi di nuovo negli Stati Uniti, ma realizzano centinaia e centinaia di miliardi di utili in Europa, fondamentalmente non tassati o tassati in maniera trascurabile. Se si guarda la bilancia, sicuramente le aziende europee manufatturiere e dell’industria agroalimentare realizzano utili per centinaia e centinaia di miliardi negli Stati Uniti, ma pagano l’ammontare di tasse che è corretto pagare su questi utili, mentre non è vero il contrario: le aziende di servizi e la gestione di brevetti di proprietà intellettuali del settore farmaceutico degli Stati Uniti realizzano altrettanto, o quasi altrettanto, in Europa, ma non pagano le tasse.
Questo è quello che sta succedendo, dunque è molto difficile, su questa base, che ci sia una delle due parti che ottiene un vantaggio sleale, e forse, se c’è, è la parte delle multinazionali americane.
Quindi nei fatti l’affermazione di Trump non trova conferma, se si guarda la bilancia dei pagamenti e il sistema fiscale che c’è dietro la generazione di utili negli scambi tra le due parti del mondo.
I dazi possono essere letti anche come un’aggressione per indebolire l’Europa, e l’Europa, accusata di remissività, come è meglio che reagisca?
La strategia di Trump risponde a una logica di potenza: un gioco a somma zero, dove l’indebolimento altrui equivale al rafforzamento degli Stati Uniti. A mio avviso, non conviene entrare in una guerra commerciale con gli Stati Uniti perchè l’Europa ne uscirebbe perdente.
Ciò che è mancato finora è una reazione sul piano dell’integrazione, l’Unione europea non ha sfruttato appieno i propri punti di forza. L’Europa è oggi l’unica grande area che combina caratteristiche uniche: una moneta di riserva, istituzioni indipendenti – come la Banca centrale e l’Antitrust – un sistema giudiziario non condizionato dalla politica, mercati aperti e trasparenti.
Negli Stati Uniti, al contrario, assistiamo a distorsioni sempre più evidenti dalla cronaca di questi mesi. Quello che manca all’Europa è l’integrazione dei mercati. Gli investitori internazionali – dai fondi sovrani della Cina, del Golfo o di Singapore – cercano opportunità su larga scala e non sono interessati a investire piccole somme in Italia, in Francia o in Germania, sarebbero invece attratti da un mercato europeo integrato. Per esempio molte aziende cinesi, oggi a disagio sui listini di New York – Nasdaq e S&P, oltre 300 società con capitalizzazioni complessive di circa 300 miliardi di dollari – vedrebbero con favore un’integrazione dei mercati finanziari europei, per spostare la quotazione nella piazza finanziaria della zona euro, se ne nascesse una. Che sia Francoforte, Parigi, Milano o Amsterdam poco importa, perché avrebbero a quel punto un mercato liquido ampio denominato in una moneta di riserva internazionale.
Questo tipo di integrazione restituirebbe leadership all’Europa, ma non stiamo facendo questa mossa. Anzi, direi che quello che vediamo va in senso opposto, malgrado la retorica e le dichiarazioni.
Lo stesso vale per la difesa: non abbiamo fatto un’emissione di debito comune per finanziarla con progetti comuni. Per esempio, avremmo dovuto farlo per sostenere un piano di droni destinato all’Ucraina e all’Unione europea, ma non lo stiamo facendo.
Un altro punto critico è la mancanza della capacità europea di esercitare una leadership internazionale nell’ambito di una coalizione di Paesi che hanno una visione del mondo diversa da quella di Trump: Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud, Giappone, Canada, e perché no anche il Sudafrica, o potenzialmente l’India. Non abbiamo neanche avviato un dialogo con queste aree del mondo per cercare di tessere una coalizione potenzialmente alternativa. Anzi, assistiamo al tentativo si Trump di creare divisione tra l’Unione europea e la Gran Bretagna nel momento in cui questa tende a riavvicinarsi. In questo noi rimaniamo spettatori abbastanza passivi. Secondo me, ci sono molte mosse che l’Europa avrebbe potuto compiere, altrimenti, perdiamo tutti.
Lei argomenta che l’odierno andamento dell’economia e del mercato americano è punteggiato di segni quasi tutti negativi e deludenti e che si sta come inceppando il motore produttivo più potente del mondo. Cosa sta inceppando il motore dell’America?
Secondo me siamo di fronte a due economie. Una è quella delle tecnologie e dell’AI, che ha una sua velocità, è in fortissima accelerazione e trasformerà la produttività soprattutto delle grandi imprese che dispongono di banche dati molto ampie per allenare i loro modelli di AI e, grazie a questo, accelerare la loro produttività. Mentre il resto dell’economia rimane indietro. Questo è quello che sta succedendo: c’è un’economia molto, molto duale.
Un aspetto poco compreso è che la rivoluzione dell’AI aumenterà le diseguaglianze non solo nella società – tra chi possiede competenze o accesso agli investimenti – ma anche tra imprese. In particolare le imprese più piccole, non in grado di generare una banca dati abbastanza ampia per allenare i propri modelli di intelligenza artificiale, resteranno indietro. La scala sarà sempre più decisiva.
«Warren Buffet, grande investitore, ha osservato che i dazi sono un atto di guerra economica. Di certo sono il modo con cui l’America scarica le proprie contraddizioni interne – le tensioni per le diseguaglianze crescenti, l’iniquità fiscale, il debito – sul resto del mondo, incolpandolo dei propri mali. C’è però un’altra guerra economica portata avanti, questa senza che nessuno l’abbia mai neanche dichiarata. È quella condotta dalla Cina di Xi Jinping, che in questo agisce in modo uguale e contrario a Trump. Anche la Cina fa pagare il costo immane delle proprie contraddizioni al resto del mondo. Non attraverso i dazi, ma il loro contrario: il mercantilismo più vasto e aggressivo che la storia economica ricordi. Il risultato è un eccesso di capacità produttiva nel pianeta in tutti i settori industriali a maggiore intensità di manodopera. Le guerre commerciali del nostro tempo sono leggibili, in questa prospettiva, anche come un conflitto fra grandi aree economiche per l’allocazione delle perdite – perdite di posti di lavoro, di potere d’acquisto, di stabilità sociale e politica – che alla lunga tutto questo eccesso di capacità produttiva imporrà. Qualcuno, da qualche parte, ci rimetterà qualcosa». È una guerra che troverà un compromesso?
Non credo nelle previsioni, quindi non ne farò. Continuo a pensare che questa dinamica sia vera. Negli Stati Uniti le contraddizioni interne di cui parlavo all’inizio stanno alimentando protezionismo, perciò si tende ad attribuire la colpa di ciò che accade al resto del mondo.
Per quanto riguarda la Cina il problema è diverso. Il modello politico di Xi Jinping tende a reprimere i consumi interni per ragioni di controllo della società. È un sistema che controlla i flussi migratori interni, non investe nel welfare, mantiene il partito al centro di tutte le articolazioni della società. Avendo una domanda interna così debole, l’unico modo per sostenere l’occupazione è sostenere l’export e creare capacità produttiva a basso costo, magari sussidiata. Questo si traduce in un’aggressione mercantilista nei confronti del resto del mondo.
Da un lato quindi il protezionismo degli Stati Uniti, dall’altro il mercantilismo, e la Cina è “l’uomo in mezzo”. C’è grande tensione.
Dobbiamo pensare che il trumpismo sia un fenomeno passeggero di cui contenere i danni o segna un’epoca e traccia davvero le linee politiche dell’America futura e quindi delle relazioni geopolitiche ed economiche? Resisterà il mito dei Kennedy come bussola per l’America o sarà spazzato via dal populismo?
Io credo che il mito dei Kennedy, come tale, è rimasto e rimarrà ancora. Forse era possibile immaginare che Trump e il trumpismo fossero un episodio circoscritto alla sua prima presidenza, quando non aveva vinto con il voto popolare, ma con la seconda presidenza, questa ipotesi non regge più: emerge un elemento strutturale, una rivolta della società americana contro i meccanismi di selezione della politica.
Questo non vuol dire che Trump o i suoi sostenitori vinceranno sempre le elezioni, o anche solo alle prossime elezioni del Congresso o alle presidenziali, ma ciò che Trump ha fatto e sta facendo – dai dazi alla riduzione dell’autorità delle istituzioni indipendenti, fino all’indebolimento dell’influenza del Congresso – temo che sia un precedente difficile da smantellare. Non si tratta di fatti episodici.