Non ho incontrato Cesare Cavalleri che pochissime volte, e solo nei suoi ultimi anni, pur avendone sentito parlare molto spesso: e quindi il mio ricordo di lui sarà più uno schizzo, un abbozzo, che un vero ritratto. Avevo però letto molti articoli suoi, e frequentato la sua rivista, ‘Studi Cattolici’: era una persona che mi incuriosiva, con opinioni nette e molto personali, ma convincenti. Un sorso di fresco pensiero, originale e autonomo, da cui si poteva dissentire ma che era difficile ignorare.

Quando finalmente mi capitò di vederlo di persona non mi fu facile sottrarmi a quello sguardo di intelligente ma ritrosa ironia, che sembrava sfidare l’interlocutore a rivelarsi, magari per pungerlo meglio – ma senza acrimonia. Parlammo di scrittori del Novecento; si capiva subito che aveva opinioni nette, e che non era affatto facile fargliele cambiare, o perfino metterle in discussione: e questo mi piacque molto, incline come sono anch’io a giudizi taglienti, e spesso impietosi; mai cattivi però.

Poi, gli piaceva Buzzati, il mio Buzzati. Lo conosceva benissimo, e su questo evidentemente ci trovammo subito in sintonia e ne parlammo a lungo, con gioia, un pomeriggio nella sede della rivista; concordai su Turoldo ma non mi azzardai a contestare la sua forte simpatia per Quasimodo, che io non amo molto (anche se – tanti anni fa – avevo infiorettato il tema dell’esame di maturità con citazioni dalle sue poesie…).

Ma furono soprattutto due gli incontri in cui mi parve di toccare la sua anima più segreta. La prima volta fu quando trascorremmo – insieme ad altri amici della Ares – una giornata a Venezia, che si concluse nel bar della stazione di Santa Lucia, da dove lui riprese il treno per Milano, mentre io tornavo a Padova. Sentii allora il calore profondo che emanava dalla sua amicizia. Avevo appena pubblicato con Ares l’antologia degli scrittori armeni vittime del genocidio (Benedici questa croce di spighe…), e c’era stata una bella presentazione per il club Unesco di Venezia; ma alla stazione, prendendo un caffè, parlammo tutti insieme, con l’autore, di un libro molto interessante sugli armeni perduti di Turchia, cioè i discendenti delle giovani donne portate via dalle carovane della morte, inserite a forza in famiglie turche e là inghiottite per sempre: ma non senza aver trasmesso a figli e nipoti la vera storia della loro origine. Rimasi assai colpita dalla vivacità e dal calore della sua  reazione, e ammirai la forza con cui dominava la sua stanchezza…

La seconda occasione fu nella cittadina di Camposampiero, vicina a Padova, dove si svolge ogni due anni un concorso di poesia religiosa. Avevamo segnalato con una menzione speciale il suo unico, prezioso piccolo libro di poesia. Ne fu contento, e venne alla premiazione. Il suo sorriso, quella mattina, trasmetteva una quieta felicità. Poi andammo a pranzo tutti insieme, premiati e giurati, e lui a un certo punto, quasi in segreto, mi disse alcune cose del cuore. Lo sentii molto vicino, allora: sapevamo – entrambi, in quel momento – che l’età che avevamo raggiunto esigeva più sereni e distaccati pensieri. E molti tranquilli, reciproci sorrisi.