Alberto Mattioli, giornalista e consulente aziendale, che ha ricoperto incarichi politici e istituzionali, collaboratore di Avvenire e curatore di diverse pubblicazioni per Itl Libri, tra cui Parola di Bob. Le “profezie” di Robert F. Kennedy rilette e commentate dai protagonisti del nostro tempo (2018). Ha coordinato questo quaderno e in questo studio ripercorre l’ascesa politica di Bob Kennedy sino al tragico epilogo, in occasione del centenario della nascita. Si sofferma soprattutto sull’attenzione particolare e appassionata di Bob verso i poveri, gli immigrati, “gli ultimi”, sui valori della sua proposta politica e su alcuni aspetti “profetici” di essa, confrontandoli con la prospettiva diametralmente opposta della visione trumpiana dell’America di oggi.
Ci sono stelle rapide e cadenti, e stelle polari. Il 20 novembre 2025 sarà il centenario della nascita di Robert Francis Kennedy detto Bob. Una personalità che, insieme al fratello John e a tutta la sua famiglia, fu artefice del mito americano della “nuova frontiera” e i cui pensieri e azioni continuano a essere un riferimento.
Il ricordo della sua nascita costituisce l’occasione per rendere omaggio al suo impegno e sacrificio, ma soprattutto offre l’occasione per cercare di comprendere le ragioni dei grandi mutamenti in corso che investono gli Usa e conseguentemente tutto l’Occidente. Riflessioni che speriamo possano essere utili segnavia per districarsi nella complicata attualità.
Nei momenti di buio, la storia ci soccorre con il ricordo di uomini che hanno lasciato un’eredità esemplare di umanità e intuizioni profetiche.
Non mancano gravi preoccupazioni che deprimono la speranza. Le tante guerre in varie parti del pianeta (Ucraina e Medioriente in primis) generano instabilità geopolitiche e imponenti flussi migratori che, comportando certamente notevoli complessità di gestione, vengono cinicamente sfruttati per aumentare le paure e porre sotto attacco le democrazie. La globalizzazione sospinta da un supersonico iper-sviluppo tecnologico incrementa il divario delle conoscenze tecnologiche, delle disuguaglianze economiche e della concentrazione di ricchezze e poteri enormi nelle mani di pochi oligarchi (si pensi a Elon Musk). Il riscaldamento globale e le varie emergenze ecologiche mettono a rischio l’intera umanità. Il ritorno alla proliferazione degli arsenali atomici rappresenta rischi terribili. La crisi dell’Onu e le difficoltà delle democrazie storiche occidentali, azzannate da populismi sovranisti-nazionalisti, fanno sì che ambedue siano in affanno nel tenere testa alle spinte illiberali di coloro che illudono di risolvere i problemi con il “prima noi” e tutto rapidamente. Si diffonde una versione profana del Vangelo senza Cristo, che rinnega la sua essenza di libertà, conversione e misericordia. Il movimento – Maga – di Donald Trump è emblematico di questo minestrone. L’Unione Europea ha continuato a crescere e ora soffre di una governance così complessa che stenta a rispondere efficacemente alla rapidità dei cambiamenti in corso. Pur tuttavia, le crisi in corso possono accelerare quei processi unitari fino a oggi osteggiati.
“Speranza” fu una parola ricorrente della campagna presidenziale di Bob. Proviamo quindi a offrire un contributo per ritrovare spirito e ragioni onde continuare a credere e sperare in un mondo migliore.
La famiglia, le battaglie, il travaglio, la corsa e la morte
Robert Francis Kennedy nasce il 20 novembre del 1925 a Brooklin, Massachusetts. Settimo figlio della famiglia di Rose Fitzgerald e Joseph P. Kennedy. Nel 1951, dopo essersi laureato in Scienze politiche ad Harvard, ottenne la laurea in Legge all’Università della Virginia. Nel 1952 sposa Ethel Skakel, la donna con cui costituirà una numerosa famiglia (11 figli) e che sarà il primo e insostituibile supporto in tutte le sue lotte.
Nell’opinione pubblica americana, oltre che nel suo articolato ambiente familiare, era diffusa l’opinione che dal giorno in cui Ethel incontrò Bob ne aveva così abbracciato l’inclusiva famiglia che più di un osservatore la definiva “più Kennedy dei Kennedy”.
Nel 1952 debuttò politicamente alla guida della vincente campagna elettorale del fratello John per il seggio di senatore del Massachusetts e nel 1960 guidò, dimostrando grandi capacità organizzative, la campagna presidenziale di John. Dopo l’elezione, fu nominato ministro di Grazia e Giustizia. Durante la carica si guadagnò la stima per l’efficace amministrazione del dipartimento di Giustizia. Bob Kennedy lanciò una vincente campagna contro il crimine organizzato e s’impegnò sempre più nella tutela dei diritti degli afroamericani di votare, di ricevere pari istruzione e di usufruire degli alloggi pubblici. Nel settembre del 1962 inviò le truppe federali a Oxford, nel Mississippi, per far rispettare una sentenza della Corte federale che ammetteva il primo studente afroamericano – James Meredith – all’Università del Mississippi. L’insurrezione che seguì l’iscrizione di Meredith all’università provocò due morti e centinaia di feriti. Robert Kennedy considerava il diritto di voto come la chiave per la giustizia razziale e collaborò con il presidente Kennedy quando venne proposto lo statuto dei diritti civili di più vasta portata dai tempi della Ricostruzione, la legge sui diritti civili del 1964, approvata dopo l’uccisione del presidente Kennedy il 22 novembre 1963.
Robert fu anche il più fedele collaboratore e confidente del fratello Presidente e svolse un ruolo chiave in diverse decisioni critiche della politica estera. Durante la crisi dei missili cubani del 1962, per esempio, aiutò l’amministrazione a sviluppare una strategia per fermare Cuba, così, anziché intraprendere un’azione militare che avrebbe portato alla guerra nucleare, negoziò con l’Unione Sovietica sul ritiro delle armi.
Subito dopo la morte del fratello, fu colto da un profondo travaglio e sensi di colpa. Si dimise dalla carica di ministro, ma nel 1964 si candidò con successo al Senato. In qualità di senatore di New York, avviò una serie di piani statali, tra cui l’assistenza ai bambini bisognosi e agli studenti disabili e l’istituzione della Bedford Restoration Corporation per migliorare le condizioni di vita e le opportunità di lavoro nelle aree depresse di Brooklyn. A tutt’oggi il piano resta un modello per le comunità di tutto il Paese.
Tali programmi facevano parte di una più ampia opera per affrontare i bisogni dei diseredati e dei deboli in America – i poveri, i giovani, le minoranze razziali e i nativi d’America. Cercò di far arrivare la questione della povertà al cuore del popolo americano viaggiando nei ghetti urbani, in Appalachia, nel delta del Mississippi e nei campi dei lavoratori emigrati.
Fu anche impegnato nello sviluppo dei diritti umani all’estero. Per condividere il suo pensiero, secondo cui tutti hanno il diritto fondamentale di partecipare alle decisioni politiche che influiscono sulle proprie vite e di criticare i governi senza timore di rappresaglia, viaggiò nell’Europa dell’Est, in America Latina e in Sud Africa.
Circa la questione della guerra in Vietnam, Bob appoggiò inizialmente le politiche dell’amministrazione Johnson, ma, quando il conflitto aumentò il coinvolgimento dell’America, egli ruppe pubblicamente con l’amministrazione Johnson nel febbraio del 1966, proponendo nella vita politica del Vietnam del Sud la partecipazione di tutti i fronti (compreso l’esercito politico dei Vietcong, il Fronte di liberazione nazionale).

Bob Kennedy con la moglie Ethel Skakel
Bob non si sentiva predestinato alla Casa Bianca, il ruolo di collaboratore del fratello gli pareva più adatto. Quando John fu assassinato, si ritenne in parte colpevole per l’intransigenza e durezza con cui aveva sfidato le potenti organizzazioni criminali. La sua decisione per la candidatura maturò quindi in un travagliato e doloroso processo di cambiamento aiutato dalla fedelissima moglie Ethel.
La corsa spezzata verso la Casa Bianca
E così il 18 marzo 1968 annunciò la propria candidatura alla presidenza degli Stati Uniti d’America. La campagna del 1968 portò speranza e sfida a un popolo americano afflitto dal malcontento, dalla violenza interna e dalla guerra in Vietnam. Vinse le primarie in Indiana e nel Nebraska e parlò a folle entusiaste in tutta la nazione.

A Philadelphia durante la campagna presidenziale, aprile 1968
Arthur Schlesinger ebbe a dire: «John Kennedy was a realist brilliantly disguised as a romantic, Robert Kennedy, a romantic stubbornly disguised as a realist» («John Kennedy era un realista brillantemente travestito da romantico, Robert Kennedy un romantico ostinatamente travestito da realista»)¹.
Fu una campagna elettorale travolgente. Ai suoi comizi, spesso improvvisati e affrontati con coraggio senza tutele, accorrevano folle entusiaste catturate dalla sua tensione morale per rimuovere le tante ingiustizie sociali nella società americana e nel mondo. L’immedesimazione delle sue parole con le attese è totale. Raggiunge in quei giorni la sua piena maturità umana passata prima attraverso per la prematura scomparsa del fratello Joseph e poi per lo sconvolgente attentato a John. L’America scopre di avere un nuovo leader.
Compì una svolta radicale fra lo stupore generale, che lo portò vicino alla gente comune, un’immedesimazione che gli permise di cogliere le aspirazioni umane più profonde dei cittadini. Con viaggi in Sudafrica e nell’America del Sud si immerse nelle realtà periferiche e dimenticate. Fu consacrato leader del movimento per i diritti civili dopo l’improvvisato discorso notturno che tenne in un’Indianapolis messa a ferro e fuoco dalle proteste dopo l’omicidio di Martin Luther King a Memphis. Disse:
Hanno ucciso mio fratello, hanno ucciso vostro padre e voi conoscete il mio dolore che è anche il vostro, che è anche il mio. Ma un’altra cosa ci unisce. Noi non risponderemo alla violenza con altra violenza. Perché i fratelli non uccidono i fratelli e noi siamo in cammino in cerca della pace².
Sapeva di essere amato ma anche molto odiato. «Sono il solo candidato che sia riuscito a unire gli uomini di affari, il mondo del lavoro, i liberali, il Sud, i capoccia e gli intellettuali. Sono tutti contro di me»³. Aveva tanti nemici perché fu un combattente con un carattere scontroso, ma anche solare e onesto, fino al punto di ammettere pubblicamente l’errore del sostegno alla guerra in Vietnam.
Il giovane senatore che si pose alla testa dei giovani pacifisti, dei nativi indiani, degli afroamericani, degli ispanici e dei messicani, abbandonando l’idea muscolare della potenza militare e il culto del mercato, divide il partito e l’establishment. Le sue idee di libertà, di riscatto sociale dalla povertà e dalle ingiustizie, di pari opportunità per tutti e le denunce degli squilibri ambientali causati da uno sviluppo ingordo, entrano di diritto nella dimensione profetica. A solo titolo di esempio, basti pensare alla struggente denuncia (Detroit, 5 maggio 1967) della deriva del culto degli indici Dow-Jones e del Pil quali misuratori del successo e felicità della nazione americana. Una pietra miliare che dà inizio a una nuova consapevolezza dei limiti del mito della potenza dei mercati. Un indirizzo divenuto ispiratore di nuove concezioni economiche e di nuovi misuratori del benessere delle società.
Il suo pensiero è una porta aperta ai cambiamenti: «Alcuni uomini vedono le cose come sono e dicono: Perché? Io sogno cose che non sono mai state e dico: Perché no?» (famosa citazione di George Bernard Shaw). Denuncia i pericoli dell’inerzia rassegnata, del realismo di basso profilo, della pavidità e dell’agiatezza, spronando ogni persona a essere una scintilla per il cambiamento, perché la storia è fatta dall’insieme di tante piccole azioni buone di ciascuno di noi.
È un cercatore di senso, dei motivi di delusione, delle alienazioni e delle proteste. Avvertiva dal rischio della normalizzazione delle menti che Goethe definiva «il letale luogo comune che tutti ci tiene ai ceppi». Sente quindi l’angoscia di dimostrare che il cambiamento è possibile. E per questo cerca di conquistare il potere, per poter cambiare lo stato ineluttabile della conservazione.
Robert Kennedy fu ucciso da un colpo di pistola il 5 giugno del 1968 all’Ambassador Hotel di Los Angeles subito dopo aver festeggiato la vittoria nelle primarie di quello Stato. Si spense il 6 giugno 1968 all’età di 42 anni. Il pensiero e gli ideali di Robert Kennedy continuano a sopravvivere ancora oggi attraverso l’opera della sua famiglia, dei suoi amici e della “Robert F. Kennedy Foundation of Europe”, presieduta dalla combattiva figlia Kerry.

RFK all’Ambassador Hotel poco prima di venire colpito, 4 giugno 1968. Foto di Sven Walnum, The Sven Walnum Photograph Collection/John F. Kennedy Presidential Library and Museum, Boston.
Due Americhe a confronto
La Statua della libertà, con la fiaccola che svetta verso il cielo mentre nella mano sinistra tiene un libro con la data della Dichiarazione d’Indipendenza americana, ha simboleggiato la terra della libertà, della democrazia e dei diritti. La speranza di una vita migliore possibile per tutti. La targa posta alla sua base riporta un sonetto di Emma Lazarus. Scritto nel 1883, è diventato un simbolo iconico dell’immigrazione americana. I versi più noti recitano:
Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri, le vostre masse infreddolite desiderose di respirare libere, i rifiuti miserabili delle vostre coste affollate. Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata.
Oggi l’amministrazione Trump è impegnata a costruire muri lungo i confini per impedire l’ingresso negli Usa e sta rimettendo in discussione quello ius soli sul quale ha costruito la sua storia e potenza. Gli Usa sono un enorme melting pot che è poi divenuto la sua forza. A rileggerne la storia sono evidenti le sue origini europee. Tal Amerigo Vespucci, navigatore ed esploratore, stando agli annali storici non fu lo scopritore del Nuovo Mondo, che poi in suo onore fu chiamato America? Molti dei suoi presidenti hanno avi europei, come i Kennedy (irlandesi) e Trump (tedeschi). Antichi e profondi legami di sangue, storie e culture difficili da scindere senza spezzare il cuore americano e la sua potenza. È quindi mai possibile che gli Usa, che hanno contribuito con grandi sacrifici alla liberazione dell’Europa dal nazifascismo, possano diventarne avversari? I Kennedy con il loro sfacciato ardore giovanile simboleggiarono il “passaggio generazionale della fiaccola” al nuovo potere che raccoglieva la voglia di cambiamento dei giovani. Come siamo arrivati al passaggio della “fiaccola” tra consumati ottuagenari?
I Kennedy s’impegnarono con forza per l’inclusione sociale affrontando con decisione il tema dei diritti civili, cercando di superare le barriere razziali. Trump guida un’America più frammentata, in cui le tensioni su immigrazione, diritti delle minoranze e identità culturali si acuiscono. Se i Kennedy vedevano nell’unità nazionale la chiave per affrontare le sfide globali, Trump fa leva su differenze e contrapposizioni per lucrare il consenso.
I Kennedy promossero la fiducia nel progresso tecno-scientifico e nella cooperazione internazionale come motore del futuro. Celebre l’impegno nella corsa allo spazio e la frase: «Scegliamo di andare sulla Luna». Trump costruisce la sua narcisistica leadership attorno al principio del ritorno alla vecchia grandezza americana (old wild west), sintetizzato nello slogan «Make America Great Again», con una visione protezionista verso i confini geografici, economici e culturali. I Kennedy valorizzarono la scienza e la diplomazia come strumenti per migliorare la società e affermare la leadership americana. JFK con il celebre discorso a Berlino diede un impulso formidabile alla riunificazione tedesca e alla pacificazione europea. Trump concepisce la diplomazia come rapporti di affari, mostra scetticismo verso la scienza (sui cambiamenti climatici e nella gestione delle emergenze sanitarie) e ha sviluppato con l’Europa (e non solo) un braccio di ferro economico volto a spremere più denari possibili a beneficio della propria bilancia commerciale; una politica controversa e bocciata da Wall Street.
I Kennedy e Donald Trump sono figure che segnano profondamente la storia degli Usa, ma in modi radicalmente diversi. I primi sono stati l’emblema di rinnovamento, speranza e modernità negli anni Sessanta; il secondo incarna il populismo del ventunesimo secolo con un’evidente allergia verso le regole democratiche. Due visioni opposte del futuro.
Insomma: America, oggi chi sei e dove vai?
¹ A. Schlesinger jr., Ultimo atto: Robert, in Aa.Vv., L’America dei Kennedy, Rizzoli, Milano 1983, p. 135.
² T. Clarke, L’ultima campagna. Robert F. Kennedy e gli 82 giorni che ispirarono l’America, Il Saggiatore, Milano 2009, p. 13.
³ Cfr L. Pesce, Il suo motto: si può fare di più, in Aa.Vv. “Caro Bob”, Epoca, 16 giugno 1968, p. 78.