Che gli antichisti e i filologi non vivano in un mondo fatto solo di latino, greco, marmo e papiro, ma vivano immersi nel mondo e non siano affatto nemici della modernità e della tecnologia, si sa. Ma, nel panorama degli studi classici, è innegabile che Aldo Setaioli sia una figura di spicco sia per i suoi studi, che hanno interessato uno spettro vastissimo di autori (da Virgilio a Petronio, con un’attenzione particolare alle attestazioni anche nel mondo orientale di temi e racconti propri anche della letteratura greca e latina), sia per la sua curiositas intellettuale, che per le sue qualità di poliglotta e grande viaggiatore.

Fiorentino, a lungo Professore ordinario di Letteratura Latina presso l’Università degli Studi di Perugia, e oggi Professore emerito, Aldo Setaioli è stato ed è anche un finissimo traduttore: sua la versione italiana della monumentale – e necessaria a ogni studioso – Storia della letteratura latina. Da Andronico a Boezio, di M. von Albrecht (Einaudi, 3 voll., 1991-1995). Ma, da qualche anno, Aldo Setaioli ha ampliato enormemente la sua attività intellettuale, mettendo la sua cultura immensa e la sua competenza nelle lingue moderne al servizio di una serie di traduzioni che hanno consentito ai lettori italiani di conoscere testi finora inediti nel nostro Paese: è il caso di Fidanzate alla prova di F. A. Schultze (Marietti 2020), che ha inaugurato la sua carriera di traduttore di narrativa. E pensiamo poi a tutta una serie di volumi che rivelano la sua profonda cultura, la poliedricità dei suoi interessi, nonché il sodalizio intellettuale con M. von Albrecht: le opere in latino di questo grandissimo studioso sono infatti edite in Italia da Graphe.it, con la traduzione italiana (spesso metrica) di Aldo Setaioli: pensiamo a Cari classici (2022) o Sermones (2023). Sempre per Graphe.it è edita una raccolta di liriche di Kavafis, Non sono morti gli dei, che ci presenta il rapporto del grande poeta neogreco con la storia e la cultura antiche, mentre per Lorenzo de’ Medici Press è edita La scimmia di Heidelberg, ironico e garbato apologo in latino che dimostra l’utilità della lingua di Cicerone anche nel mondo dominato dall’informatica. Altre opere cui Aldo Setaioli si è dedicato sono decisamente delle sfide assolute: pensiamo a Cavoli e re di O. Henry (Lorenzo de’ Medici Press), ai Diari di Novalis (UNINT Press), ai Canti e leggende dei Ch’uan Miao (Graphe.it), oppure alla vera storia dei 47 Ronin (se avete visto il film con Keanu Reeves… dimenticatelo! E leggete il volume tradotto da Aldo Setaioli).

Di questo, e di molto altro, parliamo ora con Aldo Setaioli.

• Professore, da dove viene questa sua passione per l’attività di traduttore, e, in particolare, la sua perfetta e precoce familiarità con l’inglese? Lei è stato uno dei primissimi italiani a trascorrere uno anno di liceo all’estero. Ci racconta qualcosa? Un fiorentino in California potrebbe essere il titolo di un bel libro di ricordi.

Cara Silvia, posso rivolgermi così a te, data la nostra lunga e profonda amicizia, avevo solo 17 anni quando, per pura curiosità, mi presentai all’allora esistente United States Information Service di Firenze, in risposta a un volantino distribuito nelle scuole, allora facevo il liceo. In breve, si trattava di un esame scritto d’inglese e di un colloquio in lingua . Fui uno dei due vincitori, e ottenni così un viaggio e una borsa di studio negli USA, per frequentare l’ultimo anno della High School soggiornando presso una famiglia americana. Mi fu chiesto se avessi delle preferenze riguardo alla località, e chiesi un luogo dove non facesse freddo d’inverno. Fu così che fui ospite per tutto l’anno di una famiglia di Culver City, dove si trovavano e in parte si trovano ancora i principali studios cinematografici. Culver City è una città con un proprio sindaco, ma è tutta compresa nell’area di Los Angeles. Fui ospite di una famiglia straordinaria, con la quale conservo ancora stretti legami, nella persona della sola superstite che vive ancora in California, la mia “sorellina” Cathleen, che allora aveva 7 anni. A quell’epoca (si era alla fine degli anni ’50) era come recarsi su un altro pianeta, mentre oggi le differenze si sono molto attenuate. Riuscii ad ambientarmi perfettamente nella famiglia e nella scuola. Conservo ancora rapporti con alcuni miei compagni di scuola e sono rimasto in contatto con molti dei miei insegnanti di allora, fino a che sono rimasti in vita. Sono tornato a trovare loro e i compagni innumerevoli volte, approfittandone anche per girare in lungo e in largo il Paese, visitando quasi tutti gli stati, comprese Alaska e Hawaii. Poi, da un certo punto in là, ho cominciato ad essere invitato a tenere lezioni e conferenze in molte università di tutto il Paese, comprese le più importanti e famose. Credo di avere attraversato l’Atlantico più di una cinquantina di volte. Quanto alla lingua, posso dire di averla acquisita in modo curioso e ancora per me inspiegabile. Gli amici americani mi capivano perfettamente, anche se mi dicevano che parlavo come Shakespeare. Io, invece, i primi giorni non capivo quasi nulla; si trattava di una lingua ben diversa da quella che avevo studiato a scuola. Gli insegnanti spiegavano, e io non capivo quasi niente. Poi, da un giorno all’altro, mi resi conto all’improvviso, come un sordo che riacquista per incanto l’udito, che capivo tutto, ma proprio tutto. Non saprei ancora oggi spiegare come ciò è potuto avvenire. Erano passate solo due o tre settimane dal mio arrivo. Scuola, famiglia, cinema e televisione sono stati i veicoli che mi hanno, quasi inconsciamente, trasmesso i vari livelli della lingua parlata. So invece perfettamente come ho acquistato la capacità di scrivere senza nessun problema in inglese: attraverso l’assidua lettura non solo dei testi richiesti dalla scuola, ma di tutte le opere letterarie che trovavo. Un terzo registro l’ho acquisito da giornali e riviste, che hanno un linguaggio tutto loro, diverso dal parlato quotidiano e dalla lingua letteraria. E non va dimenticato il linguaggio dei fumetti: i comics sono una vera creazione americana, e nessuna conoscenza della lingua può dirsi completa se non si acquista familiarità con la loro maniera espressiva.

Nasce allora la passione per la traduzione, che curiosamente ha seguito un cammino inverso a quello usuale: si trattava di far conoscere agli amici americani, in particolare agli insegnanti e attraverso loro anche agli studenti più interessati, qualcosa delle grandi opere letterarie italiane. Non di rado accadeva che l’insegnante di letteratura americana mi chiamasse alla cattedra, prima a spiegare insieme con lei qualche poesia americana (ricordo in particolare quelle di William Cullen Bryant, più facili per chi come noi ha un’educazione classica, che la scuola americana difficilmente offre), poi a raccontare qualche novella del Boccaccio o qualche brano della Divina Commedia, che almeno in parte era necessario tradurre in inglese. Del resto, questa attività di traduzione “in senso inverso” è durata fino a poco fa. Quando l’inglese è diventato d’obbligo per le pubblicazioni internazionali, ho tradotto in quella lingua, dall’italiano e anche dal francese, dozzine di articoli di amici; e per anni ho tradotto in inglese quasi tutti gli abstract in calce agli articoli pubblicati in “Prometheus” e nel “Giornale Italiano di Filologia”.

• In questi ultimi anni, si è cimentato in traduzioni molto ardue. Ci spiega la difficoltà della traduzione di Cavoli e re, e anche dei Diari di un poeta, anzi, di un vate – se mi passa il termine – come Novalis?

Cavoli e re è davvero un testo scritto in una lingua quasi “inventata”, e la sua traduzione difficilmente può essere affrontata senza la padronanza di tutti i diversi registri di cui parlavo prima. Mi ha aiutato anche il mio soggiorno di due semestri presso l’Università del Mississippi, dove ho imparato il dialetto locale, specialmente quello dei neri, anche se naturalmente all’università si parlava un buon inglese. Ma lì ho acquistato l’intera raccolta delle storie dello zio Remo di Joel Chandler Harris, scritte nel più stretto dialetto dei neri. Tuttavia Cavoli e re mette alla prova non solo il traduttore straniero, ma direi anche il lettore di lingua nativa, per il carattere fantasmagorico e volte volutamente privo di senso apparente di un linguaggio dalle espressioni continuamente inaspettate e a volte volutamente contraddittorie. È stata un’improba fatica, ma ricompensata da un divertimento, direi quasi da un godimento continuo.

Ben diverso è il caso dei Diari di Novalis. Questi, incredibilmente mai tradotti prima in italiano, sono in parte composti in un chiaro stile davvero diaristico, ma in parte, specialmente le notazioni registrate giorno per giorno nel diario dopo la morte della giovanissima fidanzata, mescolano lampi frammentari di grande poesia ad appunti di carattere culturale e intellettuale e perfino a banali fatti di vita quotidiana. Lo stile si fa via via sempre più scarno, da promemoria più che da vero e proprio diario. Spesso i verbi mancano o compaiono solo nella forma del participio passato, come in un titolo di giornale. Si tratta in questo caso di entrare in empatia con lo scrittore: un compito molto difficile, data la profondità di sentimento e i brevi momenti di luce abbagliante, che compaiono all’improvviso, quando il lettore meno se l’aspetta. La difficoltà linguistica nasce anche dal tipo di linguaggio molto diverso dal tedesco oggi corrente e dalle allusioni, perfettamente chiare all’autore e alla sua cerchia, ma che costringono il lettore (e il traduttore) di oggi a lunghe ricerche per poterle decifrare.

• Il suo libro di traduzioni da Kavafis, possiamo dirlo senza timore di esagerare, ha aiutato i lettori a focalizzarsi su un ambito della produzione di questo poeta che non era mai stato particolarmente approfondito. Ci può sintetizzare il senso e l’importanza di questa operazione?

Kavafis è sempre stato uno dei miei poeti preferiti, ma l’avevo sempre letto in traduzione, fino al momento in cui ho potuto affrontarlo con l’ausilio dell’ultima lingua che ho acquisito: il greco moderno. Le sue poesie sono senza dubbio in greco moderno, ma appena ho potuto leggerle nell’originale mi sono accorto che la sua lingua si differenzia dal greco che si parla per le strade di Atene non tanto per la conservazione di spiriti e accenti, quanto per la miscela tutta personale di dimotikí e di kathareuousa e per l’inserzione di intere parti in greco classico tratte da opere antiche, sia nel testo delle poesie sia a volte negli stessi titoli, con la conservazione anche di modi verbali inesistenti nel greco moderno, come l’ottativo e, nel titolo della poesia su Antonio abbandonato dal dio, dell’infinito, privato del verbo che lo regge nella frase di Plutarco da cui il titolo è tratto.

Questo interesse linguistico-formale si aggiunge, e dà sapore, al fascino derivante dal collegamento tra l’Alessandrino novecentesco Kavafis e l’Alessandria antica nelle sue dimensioni storiche e letterarie. Nasce così l’idea di focalizzarsi sul complesso rapporto tra il poeta greco moderno e la grande eredità culturale e letteraria con cui si sente ancora in intimo contatto, sia per il suo “alessandrinismo” letterario sia in quanto esponente moderno di quel che rimane del “nuovo mondo greco, grande” creato da Alessandro, del quale egli si sente legittimo rappresentante, in quanto erede di una missione di civiltà al di fuori dei ristretti confini dell’Ellade, della sua continuazione in epoca romana e del complesso passaggio tra mondo ellenizzato e mondo cristiano, non privo di profonde problematiche, che però non hanno reciso completamente le profonde radici del primo. Si può assistere così ad un’appassionante parabola, tumultuosa ma ininterrotta, che da Omero giunge all’Alessandria del poeta.

• Dalla sua prima traduzione di narrativa, Fidanzate alla prova, traspare una delle qualità che lei stesso possiede in sommo grado: l’ironia. Ci spiega come nasce il suo interesse per questo elegante e a tratti spassoso testo, prima del 2021 inedito in Italia?

Con l’eccezione dell’appena ricordato Kavafis, tutte le mie traduzioni finora uscite si propongono di presentare al lettore italiano opere mai tradotte nella nostra lingua. Quest’intento si coniuga con l’interesse per le opere cosiddette “minori” apparse in periodi di grande fioritura culturale e letteraria, che le hanno del tutto eclissate, almeno da noi. Nel periodo del primo romanticismo tedesco esisteva sì un’opera del grande Novalis che non era stata tradotta da noi; i suoi Diari. Questa lacuna andava assolutamente colmata, ma non bisognava rinunciare ad esplorare la produzione “minore” del periodo. L’attenzione è così caduta su Friedrich August Schultze (o Friedrich Laun, come egli si firma in questo romanzo e altrove), autore estremamente prolifico, che in realtà fu in contatto con tutti i principali protagonisti della grande fioritura letteraria tedesca del primo ’800, ma si dedicò a quella che oggi si direbbe letteratura d’intrattenimento, o “di consumo”, quella che si legge per puro, ma piacevole passatempo. Schulze ha scritto moltissimo, anche molti racconti che oggi rientrerebbero nel genere dell’“orrore”; ma ho preferito scegliere un romanzo pieno di leggera ironia, che ci presenta un “bamboccione” quarantenne alla ricerca di una moglie per non perdere l’eredità paterna, che si crede grande conoscitore di donne, ma che si lascerebbe ingenuamente abbindolare, senza suo padre e il suo affezionato servo che lavorano dietro le quinte. Ho scelto il romanzo anche perché offre un quadro abbastanza fedele dell’alta borghesia del tempo, ricca, ma fondamentalmente indifferente ai grandi movimenti culturali dell’epoca. E anche perché presenta riferimenti alla reale biografia dell’autore e contiene una sorpresa finale che può essere gradita al lettore.

• Un capitolo fondamentale della sua attività di traduttore è quello della collaborazione – o dovrei dire sodalizio – con M. von Albrecht. Come nasce questa amicizia e che cosa crede che un giovane possa trattenere da libri così colti e insieme così pieni di passione per la cultura antica?

Conosco da una vita il carissimo amico Michael von Albrecht e sua moglie, la signora Ruth – da molto prima che mi chiedesse di tradurre la sua fondamentale Storia della Letteratura Latina e il suo Virgilio: un’introduzione. L’ammirazione che ho sempre avuto per lui si è ben presto trasformata in amicizia reciproca. Egli era ancora in ruolo a Heidelberg quando mi invitò a tenere una conferenza in quella prestigiosa università. Tutti i cultori dei nostri studi conoscono i suoi fondamentali e indispensabili contributi scientifici. Ma egli e la signora Ruth sono persone di signorile cortesia, unita alla semplicità di tutte le persone veramente nobili (e chiaramente non mi riferisco semplicemente alla nobiltà di sangue di Michael). Sono stato più volte ospite nella loro bellissima casa di Sandhausen ornata di splendide icone russe, retaggio dei rapporti culturali e di sangue della famiglia. Egli parla un numero quasi incalcolabile di lingue, tra cui – perfettamente – l’italiano. Ancora adesso, ormai da tempo superata la novantina, egli continua a coltivare la lingua latina, che è in grado di scrivere e di parlare come una lingua materna. Tranne i primi scritti in latino, credo di avere tradotto in italiano tutte le sue principali opere in questa lingua. Mi riferisco per adesso alle sole opere poetiche: Ad scriptores Latinos, poi i Sermones, quindi Scriptores Romae aeternae. Sono tutte opere in perfetti esametri, che ho tradotto in endecasillabi italiani, secondo la tradizione della resa poetica italiana di quel metro. Deve ancora uscire un volumetto contenente due brevi tragedie, con dialoghi in senari giambici e cori in anapesti o strofi alcaiche, resi, questi ultimi, in metri che si rifanno a quelli dell’originale, mentre le parti dialogate sono in endecasillabi, seguendo la tradizione del teatro tragico alfieriano.

Queste opere, nelle mani di insegnanti partecipi e preparati, possono avvicinare i giovani a un colloquio diretto con i grandi autori della latinità, che qui, attraverso la parola di Michael, parlano direttamente al lettore, in un colloquio che avvicina tra loro epoche tanto lontane.

• Il De simia Heidelbergensi – La scimmia di Heidelberg è un piccolo gioiello, che ci mostra e di-mostra l’utilitas della lingua latina anche e soprattutto in un mondo dominato dall’informatica. Ci racconta le sfide di questa traduzione e in che cosa questo testo (che von Albrecht scrisse negli anni Ottanta) è stato profetico?

Quest’opera, che può dirsi una satira menippea, in quanto i versi si alternano alla prosa, è lo scritto latino più antico di von Albrecht che ho tradotto, alternando versi e prosa anche nella traduzione. Pubblicata per la prima volta nel 1989, l’operetta venne in realtà scritta alcuni anni prima, quando l’età digitale era agli albori. Si tratta di uno scritto veramente profetico, perché già allora veniva rappresentata un’umanità schiava del mondo virtuale, e per di più ignara, anzi felice, in ebete soddisfazione, di essere manipolata. La password per riguadagnare la libertà è in lingua latina, che pochi ormai conoscono, perché il Superboss, simbolo di questa manipolazione, ne ha fatto bandire quasi completamente l’insegnamento. Il latino è strumento di libertà non semplicemente e non tanto in quanto strumento linguistico, quanto come mezzo per raggiungere l’autonomia intellettuale.

La lingua classica viene usata in quest’opera (come anche nelle altre prima nominate, e in particolare nei Sermones) con una verve irresistibile, che può manifestarsi solo in chi la maneggia come lingua propria, come accade a Michael, con una naturalezza che appare priva di ogni artificio. La grande difficoltà è stata tradurre in modo fedele, ma senza cadere nel linguaggio con cui si parla oggi del mondo digitale. Mi sono sforzato di riuscirci, sperando che il mio sforzo non sia stato vano.  

• Lei è stato ed è un grande viaggiatore. C’è un posto che le è rimasto nel cuore, e dove ci consiglierebbe di andare? Per esempio, lei è un grande conoscitore, ed estimatore, della California: come l’ha vista nel suo primo viaggio negli USA?

In California ho studiato da ragazzo. Ci sono poi tornato un numero quasi incalcolabile di volte, talora per mesi interi, ospite di amici ed ex-insegnanti, e l’ho percorsa in lungo e in largo, dall’affascinante deserto del Mojave, alle fertili pianure della valle centrale, a tutti i principali parchi nazionali e fenomeni naturali, come vulcani, laghi di uno splendido azzurro o di acide acque alcaline, le antiche terre della febbre dell’oro, i vulcani e le solfatare, i monti della Sierra Nevada, le grandi città e le piccole e pittoresche cittadine. Nel mio primo viaggio, tra i 17 e i 18 anni, non l’ho visitata completamente, perché frequentavo la scuola e non disponevo dei mezzi per viaggiare autonomamente. Tuttavia ne ho riportato un’indelebile impressione, soprattutto perché allora la differenza col nostro paese era veramente abissale. La città di Los Angeles, dove risiedevo, non mi pareva una città, per la sua grande estensione e la mancanza di un centro urbano come lo intendiamo noi. Non si poteva (e non si può) andare in giro senza un’automobile. Come exchange-student disponevo di una bicicletta, ma naturalmente da solo potevo muovermi soltanto nel centro di Culver City, anch’esso, del resto, abbastanza distante dalla casa dove vivevo. Già in quel primo anno, tuttavia, mi resi conto che si trattava di una vera città, anche se molto diversa dalle nostre, e che aveva molto da offrire anche culturalmente. Allora quasi non esistevano mezzi pubblici; oggi c’è anche una metropolitana, sebbene a maglie molto larghe, e negli anni ho imparato ad andare quasi dappertutto coi mezzi pubblici, anche se ovviamente ho imparato a guidare nelle innumerevoli freeways, che allora mi parevano spropositatamente immense, mentre oggi sono insufficienti e perennemente ingorgate. Tuttavia già allora avevo potuto frequentare i grandi musei e i grandi teatri, anche se parecchi di questi ultimi mancavano ancora a quell’epoca dal panorama urbano.

I luoghi che mi sono rimasti nel cuore sono tanti, anche fuori della California e degli Stati Uniti. Quasi tutti i miei viaggi fuori dagli USA sono legati a rapporti di lavoro, di cui ho sempre approfittato per visitare il paese, una volta compiute le funzioni accademiche. Più volte sono nate anche vere amicizie con colleghi, che mi hanno spinto a ritornare. Ma altri viaggi sono nati, dopo accurata e lunga preparazione, da sogni di ragazzo; e li ho compiuti sempre da solo o con mia moglie, ricorrendo a guide dove era necessario; ma alle guide dicevo io dove andare. Alcuni di questi sogni si sono realizzati: Samarcanda, l’Iran, la Mongolia. Altri, come la Transiberiana e il Tibet, resteranno irrealizzati. Purtroppo un luogo che davvero mi è rimasto nel cuore non è oggi più sicuro: mi riferisco all’Iran, anche se forse per me ha giocato gran parte il ricordo dei corsi sull’impero persiano del grande Giovanni Pugliese Carratelli. La visita a Persepoli e al grande rilievo e iscrizione di Dario a Bisotun è stata per me un’emozione indimenticabile. Tra i luoghi che è più facile visitare, io credo che tutti dovrebbero visitare i grandi parchi del sud-ovest degli Stati Uniti, i grandi alberi della California e almeno Yosemite.  

• Lei ha anche tradotto Maugham: che testo ha scelto e perché? Sessant’anni fa era uno degli scrittori di lingua inglese più in voga, complice forse anche la versione cinematografica del Filo del rasoio con T. Power, poi ha patito un momento di oblio per essere poi riscoperto. Come mai, secondo lei?

Di Maugham ho tradotto uno dei romanzi meno conosciuti, ma che a mio parere è forse il più interessante per noi italiani: Allora e adesso (Then and Now), il cui protagonista è Niccolò Machiavelli con un comprimario d’eccezione: il Duca Valentino. Sono però rimasto un suo fedele lettore anche dopo che la sua opera ha conosciuto un momento di oblio. Lo leggo nella lingua originale, e ritengo che Of Human Bondage (Schiavo d’amore) e The Razor’s Edge (Il filo del rasoio) siano tuttora opere molto valide. Temo che la loro lunghezza e complessità abbia sofferto della tendenza alla fretta e alla superficialità cui abbiamo assistito in tempi non lontani. Un romanzo breve che amo molto è The Painted Veil (Il velo dipinto), di cui mi è capitato di vedere negli USA l’ultima delle molte versioni cinematografiche.

• Il suo grande amore letterario è stato Virgilio, cui ha dedicato alcuni dei suoi saggi più belli e più acuti (ricordo a tutti Il dubbio in Virgilio: veramente illuminante). Se dovesse spiegare in breve a un ragazzo perché Virgilio va letto e per quale motivo è un autore irrinunciabile, che cosa gli direbbe?

Virgilio è per molti il cantore di Roma e, se si vuole, della sua missione nel mondo. È un aspetto innegabile della sua poesia, ma la sua grandezza risiede soprattutto, a mio parere, nell’accento posto dal poeta sulla fratellanza umana, cementata dal fatto che tutti siamo uniti dal comune dolore che colpisce ugualmente ogni uomo. La storia può favorire una parte piuttosto che un’altra, alcuni uomini piuttosto che altri; ma tutti siamo fratelli nel dolore, e tutti, per quanto ci combattiamo, abbiamo una parte di ragione. Enea è vincitore e Turno sconfitto, ma entrambi difendono cause che dal loro punto di vista sono giuste, anche se la storia schiaccerà impietosamente le loro speranze. È una lezione che nessun vincitore dovrebbe dimenticare. Ecco da dove nasce il dubbio di Virgilio, che pur crede sinceramente alla missione di Roma. E la voce della natura e della semplicità delle Georgiche e delle Bucoliche non ha minore grandezza e significato della grande storia che non tiene conto delle necessità e delle esigenze umane di tutte le parti in causa.

• C’è un autore che non ha ancora tradotto e con cui vorrebbe cimentarsi? E perché

Tutti i libri che ho tradotto, con la sola eccezione di Kavafis, sono opere che mai erano state tradotte prima in italiano. Sarebbero moltissimi i grandi autori con cui vorrei cimentarmi, ma il desiderio di far conoscere opere significative, ma destinate a restare ignote da noi senza un’adeguata traduzione prevale su ogni altro interesse. Nominerò un’opera che pochi avranno sentito nominare: Whose Name is Unknown di Sanora Babb: un libro che tratta lo stesso argomento del celeberrimo Furore (The Grapes of Wrath) di John Steinbeck, che forse lo utilizzò senza farne menzione. Il libro della Babb non venne pubblicato proprio per il successo di quello di Steinbeck, e vide la luce solo nel 2004. Ecco: mi piacerebbe che il lettore italiano potesse mettere a confronto queste due opere, che affrontano in maniera diversa e da diverse posizioni lo stesso argomento.

Ringraziamo il Professor Setaioli per il suo tempo e i suoi libri, e attendiamo di vedere ancora il suo nome comparire nelle vetrine delle librerie (e, conoscendolo, posso assicurare che accadrà molto, molto presto).