Io, minuscolo credo è un libro “piccolo”, per dimensioni e numero di pagine. E, tuttavia, non altrettanto piccolo per l’intuizione che lo precede e l’interesse che potrebbe generare in molti. Va da sé che la persona più adatta – in questo caso: le persone – a descrivere un’opera, grande o piccola che sia, resta, ben al di là di ogni teoria poetica o estetica, il suo autore, il suo compositore o artista. Proprio come accade nell’esperienza di vita di un genitore che mette al mondo un figlio. Quando nasce, in famiglia tutti più o meno ne rivendicano un tratto, ma solo mamma e papà conoscono segreti che tutti gli altri ignorano. D’altra parte, i bambini crescono in fretta. Escono dai recinti, cominciano a camminare sulle loro gambe e iniziano a frequentare luoghi non programmati. Lo stesso capita a un buon libro col suo scrittore e i suoi lettori.  Ultimata la scrittura, messo il punto finale e posta la firma in calce, il libro inizia a vivere di una vita propria, diventando il simbolo di un gesto di creazione e di fiducia, di libertà e di consegna, che nutre l’ordinaria esistenza.

Ecco il punto: da lettore curioso, che cosa mi ha colpito dentro le pieghe di questo libricino? Con una sola battuta risponderei: la sua intonazione, la sua assonanza, la sua sintonia con lo stile evangelico che, senza saperlo, imita. Ovvero: con la forma e la forza di quella singolare comunicazione, che caratterizza il quadruplice racconto del vangelo cristiano.

Diciamocelo pure: sui tavoli e sugli scaffali delle librerie cittadine, di testi più o meno spirituali, interessati ai temi dell’etica e della religione, se ne trovano a bizzeffe; per cui il pericolo di andare semplicemente ad aggiungersi – a fare numero e a saturare l’aria – stava dietro la porta! Al contrario, quando sfogli queste pagine e gusti questi frammenti, resti sorpreso dalla loro freschezza, dalla loro agilità, dal loro timbro musicale decisamente orecchiabile. Del tutto simile a quello della prima testimonianza evangelica, spigliata e dinamica… Del resto, se ci ripenso, scorgo almeno tre punti di contatto formidabili fra queste due esperienze, per altri motivi impareggiabili e distanziate fra loro da più di duemila anni di storia.

Primo punto di contatto

Questi cento fogli sono il frutto di una collaborazione, che pare appena uscita da una folla evangelica. La folla di Gesù di Nazareth – quella del primo annuncio, orientato al Regno dei cieli – non era una comunità di perfetti, formata da persone intellettualmente selezionate e moralmente passate al setaccio. L’unico filo di lana, che teneva insieme quella matassa di sorelle e di fratelli, piena di nodi e di colori, era in fondo la comune appartenenza territoriale. Quasi tutti provenivano da Magdala, da Tabgha, da Cafarnao, da Betsaida: da terre di acqua e di sabbia, da villaggi di lago e di mare. Proprio come questa quarantina di amici, poeti e scrittori più o meno improvvisati, in maggioranza liguri. Nella folla di Gesù, peraltro, potevi trovarci di tutto: Simon Pietro e Giovanni di Zebedeo, Maria di Nazareth e Maria Maddalena, Zaccheo e il paralitico, la Sirofenicia e la vedova della monetina. Ora: «medici, insegnanti, magistrati, ufficiali, giornaliste e casalinghe». Materiale vulcanico ad alto rischio: magma ancora caldo e fluido, lentamente assemblato da una passione civile, da una forza interiore, da una ‘fede’ non necessariamente esplicita e solenne.

Secondo punto di contatto

La folla di Gesù è essenzialmente la folla delle parabole. A questa gente di strada, determinata e feriale, Gesù non rivolge discorsi elaborati, riflessioni pensose e meditazioni difficili. Solo rapide parabole alla portata dei ‘piccoli’: intrise di semini e di tralci, di pesci e di reti, di lievito e di sale. Le vostre testimonianze di vita lavorano l’anima come le parabole. Non spiegano tutto, non pretendono di insegnare o di impartire lezioni ad altri; non entrano sempre nel dettaglio. Assomigliano piuttosto a dei tagli di luce, a delle maglie rotte sulla tela: alle fessure e alle crepe che, in alta montagna, lasciano passare fra la durezza delle rocce l’impossibile per l’uomo e il possibile di Dio. Eugenio Montale, praticamente un vostro concittadino, amava la scena, apparentemente desolata, nonché la metafora totalmente estrema degli ossi di seppia. Invero: il risultato di una levigatura incredibile, garantita, di giorno e di notte, dalle onde incalcolabili del mare che in loro ancora risuonano. Come quelle sagome, esili e lineari, i vostri testi rappresentano tracce per un varco possibile tra una storia bloccata e un’esistenza graziosa.

Terzo punto di contatto

Riguarda più da vicino il titolo scelto. Nelle città del disincanto analitico e del secco individualismo, che tutti noi abitiamo, l’Io è normalmente percepito e declinato con enfasi: trasformandosi, man mano che si cresce, in una triste ossessione. Gli idoli antichi non sono stati del tutto “illuminati”. Sono stati piuttosto rimpiazzati dai nuovi miti: dell’auto-stima, dell’auto-nomia, dell’auto-realizzazione. Questi vostri aforismi sul credere, nell’accordo riuscito della loro tessitura, ribaltano la prospettiva dell’epoca. Capovolgono l’asse di quello sguardo, rovesciano il quadro di quella visione culturale tanto miope, perché l’Io minuscolo è l’io di un soggetto che gusta e giustifica la vita, legandola a una domanda migliore. Non alla domanda: chi sono io, quanto valgo io? Ma alla domanda: per chi vivo io?