La mitezza è un valore da riscoprire, una virtù che siamo chiamati a coltivare e innaffiare per superare le tensioni e i rancori disseminati nella vita di tutti i giorni. Alessandro Gnocchi e Paolo Gulisano, autori del nuovo volume Elogio del cuore mite, ci insegnano che la mitezza non è debolezza, ma una sfida quotidiana ad aprire il nostro cuore e a vivere con gentilezza le nostre relazioni.
La mitezza come antidoto al male. Letture e riscoperte
Perché la mitezza ha bisogno di un elogio?
Alessandro Gnocchi: Posso dire questo: non è la mitezza che ha bisogno di un elogio, ma siamo noi che abbiamo bisogno di elogiare la mitezza. È un po’ come la preghiera. Il mio padre spirituale, quando gli parlo delle difficoltà nella preghiera, mi dice sempre: «Ricordati che non è Dio che ha bisogno delle tue preghiere, sei tu che hai bisogno di pregare». E la stessa cosa vale per la mitezza, che in questi anni, almeno per quanto mi riguarda, è diventato il tesoro più grande che io cerco, in qualche modo, di corteggiare e di elogiare. Quindi sono io ad avere bisogno di approcciarmi attraverso l’elogio alla mitezza e al cuore mite, dunque ai miti, perché la mitezza si incarna sempre in qualcuno, qualcuno che magari ci sorprende, qualcuno del quale non ci eravamo nemmeno accorti prima. E quindi questo elogio diventa una forma di corteggiamento di un valore che spero, in qualche modo, entri dentro di me.
Paolo Gulisano: Per me scrivere questo libro ha significato anche un rendere omaggio alla mitezza. Non se ne parla molto di mitezza, spesso è anche fraintesa, dal momento che l’essere mite è confuso con l’essere debole. Invece non è assolutamente così: il mite non è un debole, la mitezza non è cedevolezza.
Quanto le vostre storie personali sono state decisive per scrivere il libro?
P.G. Potremmo dire che miti non si nasce, o meglio, qualcuno lo è magari da sempre. Conosco persone da sempre miti, gentili, ma a volte lo si diventa col tempo. Per me la mitezza è anche una conquista, un lavoro da fare su di sé. Inoltre, dal punto di vista biografico, a diventare un po’ vecchietti forse si diventa anche un po’ più miti. C’è un modo di dire che è «Venire a più miti consigli» e forse davvero in questo caso, con il passare degli anni, le esperienze servono a scendere letteralmente a più miti consigli, ad avere più a cuore questo valore e a cercare di viverlo quotidianamente.
A.G. Concordo sulla questione dell’età che porta a vedere la propria vita in un modo diverso, con più amore e comprensione probabilmente. Per quanto mi riguarda sto cercando di adottare un approccio alla mitezza nella quotidianità. Questo mi ha portato a vedere quelle persone di cui forse prima non mi ero mai accorto, a riconoscerle come miti di cuore. Penso soprattutto a persone vicinissime come mia mamma: ho capito solo quando era già morta, che cosa avesse veramente dentro il cuore.
Quanto la mitezza è virtù cristiana e quanto invece può parlare anche ai non credenti?
A.G. Tutte e due le cose insieme. Essendo virtù cristiana parla anche ai non credenti, sia in quanto virtù sia in quanto cristiana. Sempre riguardo alla mia esperienza, mi sono reso conto che la mitezza che si presenta sostanzialmente come virtù cristiana è la chiave che permette di parlare a tutti, non credenti o appartenenti ad altre religioni. Il prospettare una visione dei rapporti umani e del rapporto con sé tramite la mitezza, apre il cuore.
P.G. Anni fa un grande pensatore laico, Norberto Bobbio, aveva scritto a sua volta un elogio della mitezza, che per Bobbio era una forma di non violenza. Negli esempi letterari che abbiamo citato nel nostro libro, invece, assistiamo anche a figure miti che si ribellano. C’è una ribellione, un’indignazione del mite di fronte all’ingiustizia. Il mite non è colui al quale va bene tutto. Davanti al male, davanti all’ingiustizia, il mite si ribella. Molto spesso però la sua mitezza lo porta non ad agire in maniera violenta, ma a offrire una testimonianza di sofferenza che salva. La mitezza è una virtù in positivo: il mite non si limita a non fare il male; fa anche di più, compiendo il bene.
Stevenson, Chesterton, Guareschi, Tolkien: perché la letteratura è un luogo privilegiato per imparare la mitezza?
P.G. La letteratura non ha il compito di dimostrare. Le dimostrazioni sono pertinenza della filosofia. Il narratore è colui che mostra, che ci fa vedere. Colui che ci mostra anche virtù in azione. E non c’è nulla di più affascinante per chi legge, di trovarsi descritti questi comportamenti. Così ecco che la mitezza vale più di qualunque teorizzazione su un principio. Noi abbiamo cercato, tramite autori a noi cari, di illustrassero modi di vivere buoni. Tutto sommato credo che la mitezza abbia a che fare molto con la bontà. Chesterton diceva che occorre disperatamente essere uomini buoni, c’è bisogno di uomini buoni. Il nostro tempo, invece, spesso esalta la figura di chi è duro. Noi abbiamo trovato in questi autori diversi modelli di come realmente si possa essere miti.
A.G. La letteratura mostra tante cose da tanti punti di vista diversi e permette di scorgere ciò che puoi cogliere solamente guardando la vita. Credo che non ci sia, al di fuori della vita reale, altro luogo così privilegiato per vedere alla mitezza come la letteratura e la poesia. Penso ai poeti di cui mi sono occupato, in particolare Osip Mandel’štam e Anna Achmatova, e vedo sempre esempi di come la mitezza scaturisca dalla poesia e la poesia sgorghi dalla mitezza. Penso poi a Dostoevskij, che è un altro degli autori analizzati in questo libro, e in lui si trova veramente tutto. Molti ritengono che Dostoevskij sia il più grande pensatore dall’Ottocento proprio perché nella sua opera narrativa racconta la realtà per ciò che è veramente.
«Il pensare mite è un pensare controcorrente». È ancora possibile portare un discorso mite nello spazio pubblico?
P.G. Credo di sì, ci sono stati ancora una volta esempi della mitezza anche in ambito politico. Pensiamo all’imperatore beato Carlo d’Asburgo, un capo di governo. Era un uomo che agiva con mitezza e non a caso veniva criticato per questa sua mitezza in tempi bellici. Io credo che ci sia bisogno di mitezza anche nello spazio pubblico, nei dibattiti, sui giornali, in televisione e sui social. Molto spesso prevale il modo di comunicare gridato. C’è un proverbio che dice «Chi urla di più, la vacca è sua», e davvero nel mercato mediatico può funzionare così, anche se è una cosa che non andrebbe fatta. Sono contrario e non per niente amo la mitezza e cerco di avere un cuore mite. Credo che, senza voler fare un discorso troppo utopistico, se più persone stimassero la mitezza il mondo sarebbe migliore. Non bisogna farsi illusioni e seguire utopie impossibili, ma nella quotidianità, pezzo per pezzo, e nell’ambito pubblico, credo che di mitezza ci sia davvero un grande bisogno.
A.G. Io ho un sentimento, un pensiero un po’ ambivalente su questo tema. Da una parte penso a figure miti pubbliche. Paolo ha parlato prima di Carlo D’Asburgo. In questo libro racconto che nel mio studio ho una fotografia dove ci sono l’imperatore Carlo D’Asburgo e la moglie Zita inginocchiati sulle rotaie del treno ad assistere alla messa prima di partire per l’esilio. E vicino ho una foto dello zar Nicola II che porta sulle spalle le reliquie di San Serafino di Sarov. Queste foto le tengo vicine perché racchiudono due destini che hanno a che fare con la mitezza. Penso però anche che la mitezza abbia bisogno di nascondimento, di celarsi, perché altrimenti rischia di essere esibita e di non essere una mitezza mite, se vogliamo, ma una mitezza ideologizzata. E penso anche – ed è un sentimento emerso anche questo con il passare degli anni – che ciò che sta nascosto alla fine viene più cercato, se viene intuito. Su questo ci ho riflettuto perché nel corso degli anni ho conosciuto molti eremiti e tutti mi raccontano che non c’è miglior modo che fare l’eremita per incontrare molte persone, perché questo stare nascosti, in modo buono, emana una forza spirituale che attrae.
Quali piccoli gesti consigliate per portare la mitezza nella nostra quotidianità?
A.G. Il mio piccolo gesto è quello di arrabbiarmi il meno possibile, cosa che in parte ho imparato a fare. Questi piccoli gesti si fanno con le persone con cui si ha più familiarità, perché diventa facile essere o sembrare miti nelle situazioni in cui questo è quasi scontato e rimane solo un atteggiamento esteriore. Diventa più difficile invece quando questo non è manifesto, perché penso che la mitezza abbia una caratteristica particolare: rompere le abitudini cattive. In questo la mitezza è molto dura, e quindi rompere le abitudini vuol dire rompere gli atteggiamenti automatici che hai con quelli che ti stanno vicini. Insomma essere miti richiede molta autodisciplina.
P.G. Per me, lo dicevamo all’inizio, la mitezza è uno stile, una virtù naturale, ma per pochi. E quindi forse anche questo ci dovrebbe fare pensare. Per molti versi la mitezza è anche un po’ imparentata con l’innocenza. E la parola “innocenza” etimologicamente vuol dire “non nuocere”. Non nuocere, perché la prima cosa da fare nella quotidianità è non fare del male a chi si incontra. Noi spesso non ci rendiamo conto che facciamo del male. E allora, da un certo punto di vista, la mitezza implica anche un po’ di sana vigilanza su di sé, e anche un po’ di sano esame di coscienza (Sono un mite, o non lo sono? Sono aggressivo?) e comporta anche il non autogiustificarsi. Noi tendiamo anche a questo, all’autogiustificazione. Ecco, io penso che in tempi come quelli in cui viviamo, dove si nuoce e si fa male del male deliberatamente al prossimo, una riflessione sulla mitezza, sull’innocenza, sul non far del male, sia un atto importante e dovuto.
