Il 3 dicembre 2025, presso il Centro Culturale di Milano, inaugura la mostra Il mondo e la tenerezza, a cura di Roberto Mutti, con 110 opere di Walter Rosenblum (New York City, 1919-2006), figura cardine della fotografia del XX secolo. Rosenblum rappresenta un punto di congiunzione tra la fotografia sociale di Lewis Hine e la nascita del reportage umanistico di Paul Strand, quando anche la street photography iniziava a delineare un nuovo percorso espressivo, che avrebbe influenzato profondamente le generazioni successive fino ai nostri giorni.
La cifra di Rosenblum, rivelata dai tanti scatti che ci ha lasciato, è rendere inscindibile l’arte e il racconto, rivelando l’immagine interiore. Le foto e i documentari presentati in mostra ripercorrono la sua parabola artistica, intrecciata agli eventi più significativi del XX secolo, con il suo sguardo precursore e l’inesauribile empatia con la sostanza umana: come la vita degli immigrati nella Lower East Side di New York, la Seconda Guerra Mondiale, i rifugiati in Francia della guerra civile spagnola, il quotidiano a East Harlem, ad Haiti o in Europa e le generazioni del South Bronx.
Le figlie, Lisa e Nina Rosenblum, raccontano per i lettori di Studi cattolici l’uomo e l’artista.

Potete fare un ritratto di vostro padre e del suo lavoro?

Nina: Nostro padre era un uomo appassionato, dai molti interessi, divertente, curioso, una persona che non aveva momenti di noia, completamente dedito alla sua arte. Aveva una vasta gamma di amici nella comunità artistica. Lavorava tutto il tempo, insegnava come professore e amava vivere. La vita per lui, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, che aveva vissuto in prima linea come reporter, aveva un valore enorme. Amava le sue figlie e la famiglia. Andava sempre alle 6 del mattino a giocare a tennis e ha cresciuto Lisa come tennista di livello nazionale. Quindi, quando amava qualcosa, lui ci provava sempre. E poi era molto legato alle persone, di ogni ceto sociale o condizione economica. Era in grado di stabilire subito un legame emotivo che togliesse all’altro la facciata, indipendentemente dal background socio-culturale.

Walter Rosenblum by Grace Robertson, c. 1996

Le fotografie di vostro padre parlano di persone. Sono state definite “fotografie sociali”, ma penso che “sociale” non debba essere inteso solo come fotografia degli ultimi, dei poveri o di chi soffre, credo che riguardi piuttosto le persone in quanto esseri umani e, in questo, esseri sociali. Mi ha colpito sentirlo dire «quando faccio una fotografia sento di dare amicizia e di stabilire un rapporto con l’altro».

Lisa: Sì, è stato molto importante per lui. Quando fotografò ad Haiti, fu molto difficile perché la gente non si fidava, comprensibilmente. Impossibile fidarsi di lui, non lo conoscevano: chi era questo straniero che entrava nel loro villaggio? E in realtà lui stabilì un rapporto, dando sempre una fotografia che li raffigurava. Così ha sviluppato uno spirito di condivisione. E poi lui capiva le persone, molto profondamente ed emotivamente, intuiva di cosa avevano bisogno. In questo modo si sono aperti e lui, quando scattava le fotografie, riusciva a catturarne l’essenza.

Mi sono rimaste impresse le parole di una signora di Haiti: diceva che Walter Rosenblum veniva «come essere umano per fotografare altri esseri umani».

Nina: Era Josie, una loro carissima amica haitiana, Josie Lemoine. Perché Haiti era una società stratificata, c’erano classi superiori e inferiori. Quindi, un americano veniva ad Haiti, la maggior parte delle volte era per turismo e guardava dall’alto in basso… Ma papà guardava da persona a persona… Per lui ogni essere umano aveva insito proprio nella sua essenza una grandezza che potenzialmente avrebbe potuto raggiungere. Lui attraversava tutti gli strati sociali che in una società separano artificialmente. Per lui non erano importanti, perché quel che contava era la condizione umana, l’anima della persona. E cercare di capirlo per creare un mondo più giusto e in pace. Ma una cosa che dobbiamo dire è che lo ha fatto con la totale consapevolezza di fare arte. Non era fotogiornalismo. E questo è molto importante. Lui e Paul Strand, secondo la storia, volevano fare fotografie che potessero essere esposte insieme a un Rembrandt o a un Raffaello. Per loro questo era estremamente importante. Perché ovviamente c’è il fotogiornalismo che non ha a che fare con la qualità della stampa, invece per loro la qualità estetica, la costruzione di un’immagine e la sua tonalità era fondamentale: facevano un bagno d’oro, oro vero che cuocevano sul fornello e poi mettevano le stampe a bagno in modo che l’argento della stampa si legasse con l’oro: ciò conferiva alla stampa una lucentezza molto calda. Quindi la qualità della stampa era importante quanto il contenuto e la forma e il contenuto erano un connubio perfetto.

W. Rosenblum, Woman in Azaca Costume, Haiti (1958-1959)

Che cos’ha a che fare con l’arte la fotografia?

Lisa: Quello che abbiamo imparato, o che ho imparato io, è che la fotografia ha lottato nel corso degli anni per rivendicare il suo posto nel mondo dell’arte. Perché era vista come una sorta di propaggine secondaria. Sai, solo una rappresentazione di ciò che c’era là fuori, ma non arte. E come ha detto Nina, la lotta per includerla è durata tutto il secolo scorso. Perché c’erano i grandi artisti, Paul Strand, Alfred Stieglitz, Edward Steichen, Lewis Hine e includiamo anche nostro padre, ma ciò per cui hanno lottato e in cui hanno prevalso è stato quello di portare l’essenza, come diceva mia sorella, delle strutture artistiche ed estetiche nella fotografia. E questa era davvero la dinamica del XX secolo, non credi Nina?

Nina: Assolutamente sì. Questa era la lotta del XX secolo, e hanno prevalso. E ora è visto come parte del pantheon dei grandi…

Lisa: Voglio dire, uno Stieglitz o uno Strand sono visti con lo stesso rispetto e la stessa struttura dei grandi pittori, dei grandi scultori. È molto interessante, e forse è un po’ commerciale, ma nelle case d’asta, come Sotheby’s e Christie’s, ora per la prima volta stanno inserendo delle fotografie. Prima non succedeva: la fotografia era un piccolo figliastro del mondo della pittura. Quindi è un cambiamento importante. E ora quello che sta succedendo è che a dipingere è il figliastro. Guardati attorno, vedi forse dei quadri qui?

E mi indica le fotografie delle iconiche dive degli anni Cinquanta e Sessanta, appese ai muri della hall del Bulgari Hotel.

W. Rosenblum, Chick’s Candi store, Pitt Street, N.Y.C. (1938)

Oggi queste immagini ci sembrano folcloristiche, perché ci raccontano un’epoca. Ma allora sono state dirompenti, quasi scioccanti…

Lisa: Oh, questa è una domanda molto interessante, cosa dire? Perché era qualcosa di veramente diverso, anche dagli altri artisti, dagli altri fotografi. Sì, è molto accurato e penso che le fotografie degli immigrati all’epoca fossero state piuttosto scioccanti.

Nina: Sì, penso che siano stati degli scatti rivoluzionari perché considerare emblematico un immigrato è un’affermazione molto importante. Sì, perché prima venivano disprezzati, denigrati, sminuiti. Quindi, metterli sullo stesso piano dell’arte o delle altre grandi persone del mondo è stata un’affermazione molto importante. Erano ai margini della società. Guarda questa foto del bambino sul tetto a Pitt Street: mettere un afroamericano al centro è come dire che questo è ciò con cui il Paese e il mondo devono confrontarsi e su cui devono migliorare.

W. Rosenblum, Boy on Roof, Pitt Street, N.Y.C. (1938)

Lisa: È il centro di New York, perché questi sono i ponti principali di New York che attraversano la città. Quindi è un’affermazione incredibilmente importante perché parliamo di persone sottomesse. Sì, all’epoca in schiavitù… Quindi hai centrato il punto, è stato scioccante.

Nina: Scioccante è una parola strana, però sì, è stato scioccante. E ha fatto crescere la gente, perché dovevano pensare al mondo in un modo molto diverso. Ha aumentato la loro coscienza, sai? O almeno, ci ha provato…

W. Rosenblum, Boy with Zither, East Harlem (1952)

Si, anche le fotografie agli zingarelli, i “gipsy kids”.

Nina: Sì, gli zingari li trasformò nel Caravaggio più bello.

Lisa: Nei libri si dice che abbia fatto un Caravaggio di queste persone. Di fatto ha onorato questi bambini. Questa era una delle sue fotografie preferite.

Nina: Diceva proprio così: «Questa fotografia della ragazza sull’altalena è una delle mie preferite».

W. Rosenblum, Girl on a Swing, Pitt Street, Lower East Side, N.Y.C. (1938)

Si dice che abbia fatto una mostra dal barbiere…

Nina: Non era proprio una mostra. [Ridono] Aveva un barbiere italiano nel quartiere in cui siamo cresciute, da cui andò fino alla fine della sua vita e che adorava, Dominic. E quando Dominic vide la foto di una processione religiosa ad Astoria (New York), disse: «È mia», perché il cantante era un suo amico. Così papà gli diede la foto e lui la mise nel negozio. E poi gliene diede altre. Quindi quando andava a tagliarsi i capelli vedeva le sue foto esposte sul muro.

Era un uomo divertente.

Nina: Oh, molto divertente. Nel documentario c’è un momento in cui siamo seduti in campagna, siamo a tavola e ridiamo.

W. Rosenblum, Rest Stop, Petionville, Haiti (1958-1959)

Vorrei chiedervi un’altra cosa sui bambini, perché lui ha fotografato molti bambini, come dicevamo, e in rifermento a una foto scattata a una bambina di Haiti disse: «Quando riguardo questa foto, capisco il mio senso sulla Terra».

Nina: Per lui i bambini erano molto importanti, perché ha avuto un’infanzia molto dura. Vivevano in una situazione di povertà e perse la madre in giovanissima età. Quindi, per quanto riguarda i bambini, aveva un’empatia speciale, per esempio, parlava con quei bambini non da adulto, ma, sai, dava loro importanza e significava molto per loro in termini di sicurezza in sé stessi, fiducia nel proprio istinto e nei loro sentimenti. Fotografava quei bambini quasi come una diversa estensione di sé.

Lisa: Penso anche che ciò che è stato importante è che lui li fotografava in un certo momento e in un certo luogo, ma pensava al loro futuro. Quindi diceva: questo è il momento e il luogo, ma questi bambini saranno il futuro. E il loro futuro sarebbero dovuto essere luminoso, avrebbero dovuto avere delle opportunità. Quindi c’era un messaggio anche nei bambini. Per lui era importante il lavoro che proiettava al futuro, perché spingeva a pensare: cosa succederà a questo bambino? Riprendendo l’immagine della ragazza sull’altalena, mostra tanta speranza. E, in effetti, dentro di te pensi che cosa le sia successo; quindi, elabori il futuro mentre guardi un’immagine del passato. E lui ne era molto consapevole.

Nina: Inoltre, credeva fermamente nell’uguaglianza tra donne e uomini. Lui era in prima linea. Quindi la ragazza sull’altalena è un’immagine simbolica della liberazione delle donne, dell’ascesa delle donne. Perché ci credeva fermamente. Anche questo derivava dal rapporto molto importante che aveva avuto con sua madre, che, sì, era morta giovane, ma aveva tre sorelle maggiori che si presero davvero cura di lui mentre cresceva nel Lower East Side. Ed era un vero sostenitore delle donne e del loro progresso.

W. Rosenblum, Child with cat and basket, East Harlem (1952)

Siete orgogliose di vostro padre.

Nina: Oh, così orgogliose. Pensiamo che sia stato un artista fantastico e vivere con lui è stato davvero d’ispirazione.

Lisa: Sì, vedi, mi vengono le lacrime agli occhi. Gli eravamo molto vicine, ma lui era anche molto rigoroso, non era una persona scherzosa quando si trattava della tua “arte”. Si trattava di vivere la vita e quindi dovevi essere concentrato e dovevi avere un obiettivo. E non potevi semplicemente, sai, perdere tempo. È stato molto severo su questo; per esempio, se scrivessimo una tesi, lui ci scriverebbe sopra «non va abbastanza bene». Quindi, alcuni giorni lo amavamo, altri un po’ meno [ridono].

Vi parlò mai del D-Day?

Nina: Nostro padre non parlava della guerra. Quando eravamo bambine, vedevamo le medaglie che aveva nel cassetto. Le teneva sempre nel cassetto più alto. Ma quando ho voluto fare il film su di lui e ho iniziato a intervistarlo a riguardo, ho capito tutte queste cose di cui non avevamo mai sentito parlare. Poi la Shoah Foundation, la fondazione di Steven Spielberg in California, a Los Angeles, ha inviato qualcuno a intervistarlo e abbiamo avuto accesso a quelle interviste, da cui ho imparato tantissimo su cosa fosse successo e come fosse successo. Poi, quando è morto, abbiamo trovato una busta nel suo studio, dentro la quale c’erano delle piccole immagini che non avevamo mai visto e sul retro era impresso il simbolo dell’esercito: l’esercito aveva rimandato indietro a papà alcuni, pochissimi, negativi 4×5. Lui stesso aveva poi stampato circa sette o otto negativi, ma erano tantissimi e li aveva girati dallo sbarco del D-Day sulla spiaggia di Omaha, fino alla liberazione di Dachau e di Monaco. E così abbiamo iniziato quella conversazione che non avevamo mai avuto con lui.

W. Rosenblum, Omaha Beach Rescue, D-Day, Normandy (1944)

Lisa: Abbiamo poi scoperto che molti dei soldati che hanno combattuto nella Seconda guerra mondiale e in altre guerre, presumo, non ne parlavano. Era troppo difficile riportare alla mente i ricordi, per cui li reprimevano e non li condividevano con la famiglia. Quindi è stato solo dalla Shoah Foundation che abbiamo scoperto tutto questo. C’era una cosa che diceva: «Quando atterrai, il D-Day, l’acqua era rossa», parliamo dell’Oceano Atlantico. E l’altra cosa è che, quando aprirono i cancelli di Dachau, disse di essere entrato, di aver girato la curva, di aver visto i cadaveri e di non essere nemmeno riuscito a fotografarli. Questi sono i due racconti che ho sentito. Per lui è stato davvero traumatico e non voleva che soffrissimo, ma neanche lui voleva soffrire di nuovo.

Qual è l’insegnamento che vostro padre vi ha lasciato?

Nina: Direi di fidarsi del proprio istinto più profondo, di seguire il cuore, di connettersi totalmente con l’umanità, di istruirsi politicamente, di lavorare duramente con totale concentrazione. E per me, nel cinema, di non accettare mai un no come risposta.

Lisa: Penso che una delle sue lezioni sia stata che puoi superare tutte le avversità, sia con l’intelligenza, sia con il temperamento. Non lasciare che le barriere ti ostacolino.

Nina: Aveva una visione progressista, sia a livello personale che sociale. Alle sue figlie, ai suoi studenti, che amava moltissimo, ha lasciato questa lezione: c’è sempre un modo per andare avanti.

W. Rosenblum, Hopscotch, East Harlem (1952)

Era una persona speciale.

Lisa: Sì, lo era, non solo un artista grande, ma anche una grande persona.

Penso che per essere un artista non sia sufficiente scattare belle foto, bisogna saper ascoltare, vedere, capire il mondo.

Lisa: Totalmente. Ed è questo che rende così confusi i nostri tempi. Perché tutti hanno un iPhone e tutti possono scattare foto. E adesso la cosa diventa davvero confusa: cos’è l’arte? Cos’è una buona fotografia? Perché tutti possono scattare una foto…

W. Rosenblum, Street Scene, East Harlem (1952)

Tutti i crediti delle immagini sono riservati © Heirs Walter Rosenblum