Edoardo Castagna è dal 2016 responsabile per Avvenire delle pagine culturali di “Agorà”, del settimanale Gutenberg e del mensile Luoghi dell’Infinito, e docente di Teoria e tecniche dell’informazione culturale presso l’Università Cattolica di Milano. In questo articolo ripercorre la figura di Bob Kennedy, mettendo in luce la sua evoluzione da fratello silenzioso del Presidente a coscienza inquieta dell’America, attraverso l’impegno per i diritti civili e contro la povertà, fino alla tragica fine che ne ha trasformato l’eredità in un richiamo morale ancora attuale.

In ogni famiglia c’è chi apre la strada e chi porta il peso. Se John era l’eroe da copertina, il volto scolpito nei monumenti della speranza americana, Robert era la coscienza. Più giovane, più riflessivo, più inquieto. Forse meno brillante, probabilmente più profondo. Mentre il fratello maggiore si consumava nel ruolo di presidente-cavaliere, Bob teneva il polso del Paese ferito e non aveva paura di toccarne le piaghe. La sua figura è l’emblema di una giustizia cercata non nei tribunali, ma nelle fabbriche dismesse, nei sobborghi dimenticati, nei silenzi degli esclusi. La sua eredità oggi sembra un campanello d’allarme che risuona dalla memoria americana.

La parabola della famiglia Kennedy ha accenti tragici, nel senso classico del termine: sono figli del privilegio che tentano, ognuno a modo suo, di redimersi. Bob appare spesso esitante, come chi sente che quella ricchezza non gli appartiene. Robert Francis Kennedy nasce il 20 novembre 1925 a Boston, in una delle famiglie più potenti d’America: laurea ad Harvard, servizio in Marina, studi di Legge. Mentre il fratello John incarna la speranza nazionale e guarda verso la Casa Bianca, nei corridoi della famiglia la voce di Bob non rimbomba. Però vibra, silenziosa, empatica, penetrante. Matura in lui la consapevolezza: il potere non può essere mera apparenza, dev’essere strumento per chi non ha voce.

La guerra in Giappone e gli studi di Diritto gli servono per crescere, ma non è in quei luoghi né in quegli studi che trova sé stesso. Accadrà più tardi, tra le fotografie dei poveri, nei rapporti della giustizia sui boss mafiosi, nel sorriso stanco di un operaio di Boston. Nel Dopoguerra diventa consigliere legale, si sporca le mani con le inchieste sul crimine organizzato, incrocia Jimmy Hoffa, combatte i boss sindacali. Lo fa con un accanimento quasi morale, come chi cerca la redenzione non per gli altri, ma per sé stesso.

Il Procuratore generale e l’uomo di governo

La nomina a Procuratore generale da parte di John nel 1961 è più di un gesto di fiducia fraterna: è un atto politico. Bob punta a trasformare il dipartimento di Giustizia in motore di equità: combattere la mafia come se fosse un cancro nazionale, vagliare i cartelli, scardinare consorterie. Ma rifiuta la corsa al potere: preferisce che il rispetto nasca da un’indagine accurata piuttosto che da un titolo.

John F. Kennedy e il fratello Robert F. Kennedy nel colonnato della Casa Bianca, 3 ottobre 1962. Foto di Cecil Stoughton. White House Photographs. John F. Kennedy Presidential Library and Museum, Boston

Alla lotta contro i racket sindacali affianca quella per i diritti civili, senza escludere nessuna delle due. Quando gli Stati del Sud si ribellano alla de-segregazione, Bob manda le truppe federali, protegge i giovani afroamericani, impone la legge della giustizia contro quella del privilegio bianco. Selma, Birmingham, Little Rock non sono geografie astratte: Bob ci va, ci torna, ne registra l’aria tesa, la paura, la speranza. Appare empatico, capace di piangere davanti alla perdita. Una rivoluzione camuffata da legge, un disegno non mediato di giustizia autentica. L’uomo bianco del potere decide di stare dalla parte giusta, anche se, in quei luoghi e in quei momenti, impopolare.

Il leader autonomo e l’eredità

Bob Kennedy è la coscienza inquieta dell’esecutivo. Mentre il mondo osserva John manovrare la crisi di Cuba, è Bob che gestisce le trattative con Mosca, che placa gli spiriti, che lavora dietro le quinte per evitare la catastrofe. Ma è soprattutto nei diritti civili che si mostra per quello che è: non un burocrate, ma un uomo mosso da una tensione etica.

L’assassinio di John, nel 1963, spezza Bob. Non solo come fratello, ma come uomo pubblico. Smette di essere il consigliere silenzioso e diventa il portavoce di un’America disillusa. Il dolore lo rende più umano, lo libera dalla freddezza dell’apparato. Solo a questo punto Bob affronta la politica elettiva, il confronto con il territorio. Nel 1964 è eletto Senatore dello Stato di New York: visita le riserve indiane, le baraccopoli nere, le scuole cadenti del Bronx, le campagne dimenticate del Sud; parla con i poveri, li ascolta. È il primo politico americano a capire che la questione razziale è solo il sintomo: il nodo è la diseguaglianza economica, educativa, morale.

Uscito dai corridoi del potere, Bob scrive una nuova pagina: ascoltare non è mera trasmissione, è assorbire. E questa lezione vale ovunque: contro la guerra in Vietnam, a favore di una riforma fiscale, contro l’illegalità economica. Le voci dei poveri diventano la sua urgenza, nei discorsi parlamentari e nei comizi. Le avversità sociali sono il pensiero centrale, non lo sfondo. È allora che la sua figura smette di essere “fratello di” e comincia a essere “leader per”: non un capo, ma un richiamo morale. Nel 1968 la candidatura alla presidenza divide Washington. È accusato di opportunismo, ma la sua non è una partita politica; i comizi non sono pulpiti, ma cerimonie pubbliche. Lo ascoltano gli studenti, gli operai bianchi di qualsiasi origine, gli ispanici, i disillusi della pace. Non urla slogan, introduce concetti: «La povertà è una ferita; guarirla è un dovere nazionale». Definisce la guerra in Vietnam – che pure era stata prodotta dall’escalation voluta da John e poi dal suo vicepresidente e successore Johnson – «un litigio tra fratelli» e propone una tregua interna, una tregua verso di sé: «Non possiamo chiedere al mondo di fermarsi se non lo facciamo noi stessi».

Dopo l’omicidio di Martin Luther King, nei comizi nelle università, nei sobborghi operai o nei quartieri afroamericani Kennedy parla di riconciliazione, di pace, di lotta contro la povertà come missione nazionale. Rilegge il Vangelo attraverso la politica, invoca la compassione come programma.

Il 5 giugno 1968 vince le primarie in California. È stanco, ma sorride al pubblico dell’Ambassador Hotel: «Vediamo l’alba di un nuovo giorno per l’America», dice. Pochi minuti dopo, nei corridoi del retro, viene ucciso dalle pallottole di Sirhan Sirhan. Aveva 42 anni: aveva appena cominciato.

La sua eredità non si misura in leggi, ma in impegno: le politiche sociali statunitensi contro la povertà, per l’educazione, per la giustizia, portano il suo segno. Non sono state riforme illustri e non hanno scalfito nella sostanza la diseguaglianza e l’esclusione che fanno ancora degli Stati Uniti una società per questi aspetti agli antipodi dell’Europa, ma sono state frammenti gettati nel presente: le Ong nate nei disastri, i sindaci che aprono dialogo nelle periferie, le comunità che rivendicano dignità.

Negli anni successivi l’America continua a vacillare: con il Vietnam, il movimento hippy, il Watergate. Ma senza Bob è come se fosse mancata una molla: la spinta a cambiare con la gentile fermezza di un uomo che capiva che le periferie sono l’anima di una nazione e non soltanto il rumore. Forse la lezione più alta di Bob Kennedy è che la fragilità non è limite. Il suo tremore, la sua empatia, quella legge che porta nel sangue provano che l’uomo sensibile, che vive l’inquietudine come benzina civile, è l’unico che può sostenere l’attenzione del Paese senza tradire l’umanità.

Nel tempo della voce grossa, della politica-spettacolo, della menzogna urlata e condivisa, il ricordo di Bob Kennedy resta come un promemoria silenzioso: il coraggio non è l’arroganza, ma l’empatia. Se perdiamo gli altri, perdiamo noi stessi: è questa la verità che ci ha lasciato e che oggi ha senso ricordare.