Il 26 maggio di 10 anni fa, dopo una lunga malattia, si spegneva a 67 anni Claudio Caligari e l’Italia, finalmente, apriva gli occhi su uno dei cineasti più talentuosi della nostra storia cinematografica.
Aveva da pochi giorni terminato il montaggio di Non essere cattivo, il terzo lungometraggio della sua carriera, riuscendo, nonostante le fatiche di una malattia sempre più oppressiva che lo aveva quasi privato della voce, a realizzare il sogno di tornare per un’ultima volta dietro la macchina da presa, dopo quasi 20 anni lontano dai set.
L’ultima grande impresa di un cineasta innamorato del cinema come pochi altri, che in esso ha identificato l’unico mezzo possibile per esprimersi e al quale ha dedicato l’intera esistenza, rialzandosi a ogni insuccesso, resistendo a ogni tipo di compromesso e lottando, con integrità morale, instancabile passione e una forza fuori dal comune, contro l’indifferenza e le innumerevoli umiliazioni di un mondo – lo stesso cinema – che non ha mai davvero corrisposto il suo amore. Un mondo che lo ha illuso, ripudiato e glorificato ipocritamente solo quando la sua ultima fatica è costata la vita.
Tre capolavori e una vocazione
Tre pellicole in 32 anni di carriera: Amore tossico (1983), L’odore della notte (1998), Non essere cattivo (2015). Tre pietre miliari che, pur realizzate con budget modesti, hanno rotto gli schemi, reinventato un linguaggio e lasciato un segno indelebile, seppur non immediato, nel cinema italiano e nella nostra società. Un impatto generato dalla solidità di storie dal profondo spessore umano, sociale e politico, e dalla forza espressiva di protagonisti magistralmente scritti che, pur nella loro “colpevolezza”, si rivelano pieni di umanità, capaci di lasciare un’impronta emotiva e offrire sorprendenti prospettive: anime afflitte, desolate e socialmente emarginate, che rivendicano un posto in un mondo esclusivo, classista e conformista.

Storie universali e senza tempo, capaci di conservarsi brillantemente nel corso dei decenni, rivelandosi preziose testimonianze del nostro passato e riuscendo a raggiungere con successo anche il pubblico internazionale, accolto – anziché estromesso – dalla forte componente territoriale di ambientazioni, dialoghi e personaggi, predominante nella filmografia del regista piemontese.
Nato e cresciuto ad Arona, cittadina piemontese affacciata sul lago Maggiore, Caligari intuisce fin da giovanissimo la propria vocazione: dare voce agli “outsider”, alle realtà marginali, e raccontare le anomalie del mondo che lo circondava attraverso il mezzo espressivo che amava più di ogni altro. Muove i primi passi negli anni ’70, quando, ispirato da un contesto sociopolitico di subbuglio, si cimenta nel mondo underground milanese per raccontare in forma documentaristica l’ardente clima di ribellione e contestazione di un Paese in profonda crisi identitaria, segnato da lotte di classe, disagio giovanile, fermenti controculturali e dalla crescente diffusione della tossicodipendenza. Un percorso che proseguirà per tutta la carriera, anche nelle numerose sceneggiature rimaste incompiute, diventando la cifra stilistica del suo cinema.
L’approccio al cinema di finzione arriva negli anni Ottanta, quando, ispirato al modello di libertà e rottura della Nouvelle Vague e del suo principale punto di riferimento, Jean-Luc Godard, Caligari prosegue, con sguardo visionario, il progetto socio-antropologico di indagine e approfondimento delle realtà marginali, con Amore tossico, il suo illuminante esordio alla regia. Il cineasta piemontese sceglie Ostia, raccogliendo e onorando la preziosa eredità pasoliniana, per tornare a raccontare le complesse condizioni sociali delle borgate, tra tossicodipendenza e criminalità, nel primo film-inchiesta italiano capace di mostrare la tragedia sociale che aveva investito le periferie urbane e che giornali e media avevano fino a quel momento raccontato con freddezza, sufficienza e toni edulcorati. Un film capace non solo di restituire la tragicità del fenomeno, ma di coglierne anche i tratti più “comici” e grotteschi, grazie al lungo e meticoloso lavoro di ricerca, confronto e immersione nella periferia romana che ha permesso di raggiungere la massima autenticità e credibilità narrativa.
Nonostante la “benedizione” di Marco Ferreri, che prende l’emergente Caligari sotto la sua ala intuendone le doti, il film, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia in una sezione marginale, viene acclamato dalle testate internazionali, ma suscita scandalo in Italia, dove incontra enormi difficoltà, al limite della censura, nella distribuzione.
È l’inizio di un calvario per il giovane Caligari, che scrive ininterrottamente sceneggiature senza però trovare qualcuno disposto a produrle. Per ottenere una nuova occasione deve attendere il 1998, anno d’uscita de L’odore della notte, il film della consacrazione di Valerio Mastandrea, ispirato al reale caso di cronaca della Banda dell’Arancia Meccanica, che racconta l’assalto ai quartieri alti della capitale da parte di una banda dell’estrema periferia romana. Uno strepitoso noir di denuncia sociale influenzato dal cinema poliziesco francese e dalla “Nuova Hollywood” (da Melville a Bresson a Scorsese), in cui tornano mondi marginali in cerca di riscatto e mossi da un desiderio di ribellione.
L’ultimo atto e il testamento artistico
Non bastano due film straordinari per portare Caligari al centro della scena. Saltano altri numerosi progetti e sfuma l’intrigante prospettiva di dirigere Romanzo criminale, poi affidato a Michele Placido. Quando per il cinema italiano sembra ormai invisibile, Caligari torna sul set, con un brutto male che lo consuma ogni giorno di più e la consapevolezza di essere all’ultima occasione della sua vita. A supportarlo, in maniera provvidenziale, un gruppo di amici, tra cui lo stesso Valerio Mastandrea, che ha raccolto fondi e reso possibile la realizzazione del film, Non essere cattivo. L’ultimo gioiello del maestro che omaggia Amore tossico e chiude un cerchio, tornando dove tutto era cominciato, in un’Ostia, quella anni ’90, sulla via del progresso, ma ancora intrappolata nel degrado e nel circuito della droga, cornice di una straziante storia di amicizia che riflette un luogo sospeso tra due dimensioni inconciliabili, in una pellicola che ha rivelato le innate qualità di Alessandro Borghi e Luca Marinelli. Non mollerà un centimetro, andandosene solo dopo essersi preso l’ultima rivincita contro un sistema che non ha mai compreso, né valorizzato il suo incredibile talento.
Lontano dal prototipo di regista borghese e facoltoso a cui ci ha abituato l’immaginario collettivo, Caligari è stato simbolo di un cinema libero, autentico e di impegno civile – privo di patinature e forzate mediazioni produttive di matrice commerciale – senza mai snaturarsi o piegarsi a un’industria che svilisce e soffoca il cinema indipendente, anziché agevolarlo. Ha seguito l’unica strada a cui era interessato, a costo di condurre una vita di stenti e sacrifici, morendo con le proprie idee e lasciando al cinema un’eredità che non lo ha reso né ricco né famoso, ma certamente eterno.