Carlo Miccichè è dirigente televisivo. Lavora da più di 30 anni nel mondo dell’ideazione e produzione di contenuti e si occupa in particolare di analisi e sviluppo dell’adattamento dei romanzi per la fiction e il cinema. Tiene corsi universitari di progettazione e scrittura per l’audiovisivo. 
Il concetto di serialità negli ultimi anni ha preso sempre più piede nei palinsesti delle nostre reti tv e piattaforme digitali. Dopo anni di collaudato successo, in che modo lo si interpreta oggi nel panorama produttivo e distributivo italiano?

La serialità oggi abbraccia un vasto scenario. Anche il termine “televisiva” al quale viene ancora abbinata è in fase di superamento, avendo cominciato a uscire dall’oggetto/totem televisore per insinuarsi nei vari device, dallo smartphone ai tablet e pc.

Nei decenni si sono moltiplicati contenuti e narratori, così come le produzioni che riflettono culture ed esperienze più ampie, in un flusso di continua evoluzione che riflette i mutamenti della società e delle tecnologie.

La tv italiana, detta in chiaro, soprattutto parlando di fiction, resta tuttavia a oggi ancora un duopolio, ancorato a Rai e Mediaset, le cui serie sono in maggioranza iscritte nei codici di racconto generalista di prima serata, con fughe in avanti di titoli in particolare adattati da romanzi, la cui base letteraria fornisce spessore alla traslazione televisiva. Vedi Il commissario Montalbano da Andrea Camilleri, i prodotti tratti dai testi di Maurizio De Giovanni o Marco Malvaldi o Cristina Cassar Scalia. Lo sforzo di Sky tv dal canto suo continua a essere quello di allargare i codici di genere, sfornando titoli che si distanziano dalla istituzionalità di Rai e Mediaset, con soggetti e temi più delicati, o provocatori, più “stretti” rispetto alla platea ecumenica del prime time.

Altro dato a oggi ancora tipicizzante per il nostro mercato dei due network dominanti è dato dal genere. Cioè non si esce dai perimetri del melò/romance e del crime, con puntate nella commedia, in ogni caso guardando sempre a finali riconciliati, dove il bene vince. Anche se la cifra propriamente valoriale, che è esigente, tende di regola a sfarinarsi nel buonismo, che è a buon mercato.

Raccontata fin qui, tutta la vicenda della serialità farebbe dunque pensare a un grande movimento virtuoso di storie che intrattengono. Con una molteplicità di soggetti coinvolti, a partire appunto dalle tv chiamate lineari – cioè con una programmazione fissa, a orari prestabiliti e con un palinsesto a monte – e quelle non lineari, dove invece ci scegliamo cosa guardare, quando e come, pescando dai lussureggianti menù delle varie piattaforme, da Netflix a Prime Video ecc.

Ma c’è un altro lato della medaglia. Dopo lustri di rincorsa apparentemente senza limiti a creare di più e proporre di più, il boom produttivo ha cominciato ad arenarsi.

Secondo lei, quali sono le ragioni che hanno provocato questa stagnazione delle iniziative editoriali audiovisive?

I motivi sostanzialmente sono due.

Primo, tutti gli enti scesi in campo moltiplicando l’offerta hanno investito miliardi alla ricerca di un pubblico pensato per definizione come un numero infinito. Non è così. In Italia oggi parliamo di quasi 9 milioni di spettatori nell’arco delle 24 ore.

Questo significa, considerando la sola Italia, che con tutta la buona volontà, alla fine ci sono meno di 10 milioni di individui ai quali la serialità può raccontare storie. Continuare a investire pensando che possano crescere senza limiti è un’illusione. Quindi alla fine la concorrenza tra i vari attori in campo, network, piattaforme ecc., a fronte di questi meno di 10 milioni, deve confrontarsi e combattere per portare e mantenere ascolto al proprio brand. E ormai ci si è resi conto che non si riesce ad acchiappare altro pubblico rispetto al proprio target di riferimento, target faticosamente raccolto, che anzi va monitorato continuamente, lusingato e coccolato per non creare emorragie verso i competitor.

Secondo, si è creduto che la spinta propulsiva delle piattaforme, ormai moltiplicate – oltre a Sky, Netflix e Prime Video, sono arrivate Apple-TV, Disney Plus, Paramount Plus, Now, Timvision, più le aggregate ai rispettivi network, RaiPlay e Mediaset Infinity ecc. – sarebbe stata inesauribile e invece adesso si è rivelata quello che è stata fin dall’inizio: una bolla. Perché alla fine, con un pubblico appunto “finito” è emerso prepotentemente il vero problema: i costi. Produrre costa moltissimo, se il mercato non continua a espandersi in proporzione, alla fine i budget necessari non sono più sostenibili.

Ma a suo parere, cosa non funziona in questo meccanismo che sembra essersi inceppato dopo un felice periodo di funzionamento “a pieno regime”?

La sola Netflix può vantare a oggi una platea dinamica, si parla di 300 milioni di abbonati nel mondo, mentre i concorrenti sembrano essere arrivati alle colonne d’Ercole dei propri abbonati. Ma alimentare di storie questa folla mondiale annidata nei propri salotti davanti allo schermo è un’impresa che con il tempo si fa sempre più ardua.

Il cofondatore e amministratore delegato di Netflix, Reed Hastings, oggi ultrasessantenne, laureato in informatica, ha dichiarato più volte in merito alla natura e agli scopi della propria ceratura mediatica che «il mio nemico è il sonno». Cioè, il mio spettatore purtroppo deve dormire, quando il mio obiettivo è fargli fruire (consumare) prodotto 24 ore al giorno.

Ma c’è un intoppo in questo sogno distopico del tycoon. Per produrre anche la più semplice delle serie, diciamo girata principalmente in interni, con poca azione, pochi attori non troppo costosi e il minimo necessario di apparato produttivo per fare giusto 6/8 puntate da 50 minuti, ci vogliano almeno 8 mesi, tra scrittura, shooting, post-produzione ed editing. Per fruire di questa serie, secondo i precetti di Mr. Hastings, cioè in binge watching, ci vogliono poco più di 6 ore.

Ora voi capite che, per quanto Netflix possa spendere per progettare, produrre e mettere in piattaforma di tutto e di più, 8 mesi per farlo versus 6 ore per “bruciare” il prodotto non costituiscono un rapporto sostenibile. Per quanto poi film già fatti negli anni, comprati da Netflix si possano proporre in piattaforma, anche questi pezzi sono finiti e non possono che continuare a mulinare in un loop di riproposizione continua mentre un nuovo film, cioè un pezzo unico, è ancora più oneroso da realizzare di una serie.

Ecco quindi che il lussureggiante, come l’ho chiamato sopra, menù di Netflix ma anche quello di tutti gli altri, pur meno denso, rigurgita titoli di fatto speculari che si inseguono e sovrappongono pescando nello scibile narratologico, con profluvio di crime, sbirri, serial killer, amori, avventure, horror, fantascienza, fantasy, drammi giudiziari, ospedalieri, documentari, storie in costume, storie tratte da libri, storie tratte da ogni sorta di caso di cronaca e chi più ne ha più ne metta.

Qual è la conseguenza di questo continuo sfornare proposte che si assomigliano e si ripetono come un disco rotto?

Tutta questa massa critica alla fine non solo non regge il rapporto tempo di produzione tempo di consumo, ma mostra la corda di una reiterazione forsennata dove si fa fatica a distinguere un prodotto dall’altro, soprattutto all’interno dei medesimi codici di genere, e dove divorare una puntata dietro l’altra diventa un atto bulimico più che il frutto di una scelta di discernimento e gradimento. La notorietà o il ritorno mediatico di qualche titolo peculiare, dovuto a vari fattori concomitanti, e che fa fugace tendenza transmediale con flusso di reel su Instagram e video su TikTok, tipo la serie Wednesday di Netflix, dura lo spazio di un mattino, tallonato e subito soppiantato da tutto ciò che la macchina sta intanto producendo e sfornando a ritmo continuo.

Sono sicuro che molti di voi abbiano provato a scorrere i vari menù delle piattaforme. Avrete notato che, scorri e scorri, la proposta, per quanto articolata, furbamente esibita, suggerita, insinuata, rigorosamente frutto di computi algoritmici, sfugge a una vera messa a fuoco da parte del fruitore/spettatore e scivola in una scelta inerziale indotta o, peggio, in una rinuncia, nello spaesamento da biblioteca di Babele.

Quanto ai network, ormai la dittatura del controllo costi e investimenti impone una scelta oculata di titoli contati, che devono immediatamente riscontrare il responso positivo dell’auditel, pena finire sprecati e bollati come flop. E qui la sfida si fa ancora più difficile, perché a differenza delle piattaforme che commissionano di tutto e non sono tenute a dichiarare il numero di streaming, cioè di spettatori, se non quando fa loro comodo, il network deve soppesare con grande attenzione il proprio prodotto e ogni spettatore è pubblicamente contato e censito a uno a uno. Da cui: quando si trova un titolo che funziona, lo si replica teoricamente all’infinito.

Ogni prodotto seriale inedito nasce con il dogma di non chiudere la vicenda all’ultima puntata della stagione di avvio, per lasciare sempre la porta aperta al prosieguo.

Il resto è usato e sicuro. Don Matteo, su Rai Uno è arrivato a 15 stagioni. Parimenti il varo delle seconde, terze e così via stagioni o dei sequel dei prodotti premiati dal pubblico, sono automatismi, anche per l’ottimizzazione dei costi che ingenerano. Nel 2026 Canale 5 ripresenterà I Cesaroni 7 – Il ritorno, la sesta stagione era andata in onda nel 2014. Parimenti, nel 2026 la Rai torna per esempio a Sandokan, e vi basta scorrere le presentazioni periodiche dei vari palinsesti per riconoscere la maggioranza dei titoli come già noti.

In questo panorama c’è ancora spazio per novità che possano rinnovare i temi di interesse del pubblico indirizzandolo verso nuove fonti di entusiasmo e appassionandolo?

Le novità non mancano a patto di essere puntualmente presidiate da attori e attrici ben riconoscibili dal pubblico di riferimento e dalla cautela dell’attenersi a stilemi drammaturgici e narrativi immediatamente individuabili e semplificati. Esempio, partendo da un nome riconoscibile come Sabrina Ferilli, si può presentare una storia “nuova” che la veda protagonista, purché le forti passioni, il carisma melodrammatico, e la linearità della trama non vengano messe in discussione.

Lo spazio per la creatività dello storytelling resta aperto, ma i paletti di contenimento, prioritariamente finanziari e poi di sistema, sono sempre più solidi e vincolanti. Certo si potrà sempre partire da «C’era una volta…», con il rischio però che la seconda parte dell’incipit reciti «… un sogno perduto».

Nello scenario attuale, alla luce di quanto detto finora, quali sono a suo parere le produzioni più interessanti e innovative?

Il concetto di interessante e innovativo, in termini per così dire umanistici, sta per essere soppiantato definitivamente dalle analisi marketing e dalle previsioni algoritmiche. Parlando di serie, è sempre più difficile capire cosa “interessi” o “innovi” nell’oceano di titoli e prodotti sfornati a ripetizione, nella bulimia del consumo e nella centrifuga delle derive social.

Da cui: interessante e innovativo è ogni prodotto che ascolto, per come valutato in tempo reale. Ricordandoci sempre che le storie sono state tutte già scritte. È il come vengono ri-raccontate che fa la differenza, cioè ricombinazione utile di elementi preesistenti.

Su cosa sta lavorando attualmente Mediaset? Cosa dobbiamo aspettarci sui nostri schermi nella prossima stagione?

Alla luce di tutto quanto raccontato, e dei già citati Cesaroni 7, la imminente nuova fiction di Mediaset conta sulla seconda stagione di Vanina, un vicequestore a Catania, tratto dai fortunati romanzi di Cristina Cassar Scalia con protagonista Giusi Buscemi, e sul ritorno di Raoul Bova con la terza stagione di Buongiorno Mamma. Anche gli altri volti in produzioni nuove rimangono familiari al pubblico, come Vanessa Incontrada, Anna Valle, Anna Safroncik o Gabriel Garko.

Volendo ritornare allora in conclusione ai massimi sistemi, mi viene in mente un pensiero di un antropologo che si chiama Marco Aime, quando dice: «Non tutto del nostro passato può diventare tradizione, ma solo ciò che ci può servire oggi».