Qualcuno ha detto che tutta la filosofia, in fondo, altro non è che la conseguenza del pensiero di Platone, ovvero un incessante ripensare ai problemi enucleati da Platone, alle sue riflessioni e teorie, commentandole, approfondendole, rielaborandole, o addirittura contrastandole. E a questo titano del pensiero Matteo Nucci dedica il suo nuovo, monumentale lavoro: Platone. Una storia d’amore (Feltrinelli, pp. 576, €22). Si tratta di un romanzo come raramente ne avremo letto e ne leggeremo, per la sua densità e per la conoscenza da parte dell’autore del pensiero e della bibliografia platonici, ma anche per le emozioni che Nucci sa suscitare nel lettore. Fra le opere di Nucci, da molti anni studioso di Platone, annoveriamo: Sono comuni le cose degli amici (Ponte alle Grazie 2009); una meritoria e bellissima edizione del Simposio (Einaudi 2011); È giusto obbedire alla notte (Ponte alle Grazie 2017); e un saggio, lo scorso anno, sull’ “eroismo fragile” di Hemingway, Sognava i Leoni (HarperCollins 2024).

Platone. Una storia d’amore si apre in un mattino dell’estate del 415 a.C.; quattro ragazzini si danno raduno su un masso che sporge sopra il porto del Pireo. Fra loro c’è Aristocle, 12 anni, e lo sguardo attento e teso di chi vuole capire e bere il mondo; presto verrà ribattezzato, per l’ampiezza delle spalle, con un nome destinato a riecheggiare fino a quando durerà l’uomo: Platone. Accanto a lui c’è l’uomo che ne racconta la storia e che sarà la voce narrante del libro. Ne parliamo con l’autore.
Lei ha affermato che questo libro ha avuto una genesi molto lunga: addirittura 30 anni.

Sì, anche se, in realtà, per scriverlo ci ho messo effettivamente 5 anni; ma è vero che l’intuizione e il desiderio di scrivere un libro come questo su Platone risalgono almeno a 30 anni fa. Però un conto è avere, da ragazzo, l’intuizione e l’idea, altro è avere gli strumenti per metterla effettivamente su carta: era un desiderio nella mia mente, ma è dovuto passare molto tempo perché potessi avere gli strumenti per scriverlo; anche se, come diceva Hemingway, a un certo punto bisogna mettersi a scrivere perché, a furia di affinare e limare gli strumenti, si rischia di finire per non usarli più.

Nel suo romanzo ci presenta Platone come un uomo dominato dalle passioni, capace di grandi slanci e anche di grandi innamoramenti. Curioso, perché nella vulgata il filosofo è immaginato come un individuo freddo, quasi impassibile, per non dire ascetico, che guarda la vita dal di fuori, immune da quelle accensioni che travolgono i comuni mortali.

In realtà Platone non fa altro che parlare di desiderio e passione, di come si contraddicano spesso; parla di eros totalizzante che passa attraverso l’anima e la porta o verso l’alto o verso il basso (come dice nel libro IX della Repubblica, in cui parla di eros tiranno). Il logos è l’elemento distintivo degli esseri umani, che li rende differenti dagli animali, e li può però o far innalzare verso il divino, oppure li può far abbassare verso atrocità spregevoli, inimmaginabili persino agli animali più feroci; feroci, sì, ma che non sanno certo progettare e tramare il male come spesso fa invece l’uomo. E dato che Platone tratta tutto questo, e l’eros pervade tutta la sua opera, è impossibile pensare che Platone non abbia provato dentro di sé tutto questo.

Ci sono anche donne, e molte, nel suo libro, a dispetto del luogo comune che pensa all’Accademia come a una “cosa da uomini”.

Sì, perché la verità sull’amore viene detta da una donna: pensiamo nel Simposio al discorso di Diotima (dietro la quale si può celare la figura di Aspasia, l’etèra amata da Pericle, o forse una sacerdotessa egizia). All’Accademia erano ammesse anche le donne, e, nella famiglia di Platone, avevano imperversato due donne fortissime, la madre e la sorella.

Nel libro, raccontando i viaggi di Platone, si sofferma sul soggiorno presso Archita dai Pitagorici. Anche loro avevano animato un cenacolo, che però non durò quanto l’Accademia, e non ebbe né l’importanza né la durata: non dimentichiamo che l’Accademia platonica è stata la più longeva istituzione culturale del mondo. Come mai? Qual è la differenza e il lascito dell’Accademia ancora oggi?

Certamente la libertà estrema di pensiero e di ricerca che i Pitagorici non avevano, dato che fra di loro vigeva l’ipse dixit, per cui non era possibile discutere o indagare quelle prescrizioni che erano di Pitagora, o a lui attribuite. Nell’Accademia, invece, Platone è scolarca, fondatore e guida dell’istituzione, ma, quando si allontana, nomina un sostituto, e, dopo di lui, si succedettero moltissimi scolarchi, ognuno dei quali diede il suo contributo e impresse il suo indirizzo all’Accademia, tanto che quella che, oltre otto secoli dopo venne chiusa da Giustiniano, potremmo dire, non era più nemmeno una lontana parente di quella di Platone. Purtroppo, ormai, nel linguaggio comune, il termine «accademia» e l’aggettivo «accademico» evocano qualcosa di polveroso, vecchio, farraginoso, distaccato dalla realtà, qualcosa di grigio e stantio, freddo e senza passione, tanto che può diventare quasi un complimento definire qualcuno o qualcosa come «anti-accademico». Ma l’Accademia di Platone, e questa è l’eredità che ci lascia, è l’ideale di un luogo dove si anela al sapere attraverso la libertà della ricerca; non una scuola chiusa e asfittica, ma un luogo di libera circolazione delle idee dove uomini e donne, insieme, senza invidia, si impegnano nella libera ricerca del sapere.

 Passiamo a una domanda difficile: se dovesse indicare il suo dialogo platonico preferito, quale sceglierebbe?

Direi il Simposio, che è il dialogo su cui ho lavorato di più; ma è difficile scegliere, perché non si possono non nominare almeno il Fedro e il Fedone.

Immagini di poter incontrare Platone per un’ora, un’ora soltanto, ma di averlo tutto per sé per quel tempo. Che cosa farebbe, di che cosa vorrebbe parlare con lui?

Per prima cosa, vorrei fare una bella passeggiata che inizi magari dalle parti di Colono, dove lo incontro a volte nei miei sogni, e poi procedendo lungo la Via Sacra verso il Dipylon, il Ceramico fino quasi all’Acropoli. Di che cosa gli parlerei? Gli chiederei di parlarmi dei suoi amori.