Come possiamo intendere la persona umana dal punto di vista sociologico? La sociologia relazionale fa una proposta: si tratta di concettualizzare la persona umana1 dando priorità alla relazione, intersoggettiva e sociale. Il che significa: “all’inizio (all’origine della persona) c’è la relazione”, ed è nella relazione che la persona esiste (ex-siste, ossia è nel connettersi ad altro da sé, fuori di sé, che ha il proprio ubi consistam). Il cristiano troverà immediatamente il senso di questa affermazione pensando alla realtà della filiazione divina.

La sociologia relazionale differisce sia dalle sociologie che intendono la persona come un essere autopoietico (che si genera da sé) e autoreferenziale (che si sviluppa con un proprio “programma” interno), sia dalle teorie che concepiscono la persona come una pura costruzione sociale. Tutte queste sociologie si basano su un’ontologia sociale costruttivista che è piatta e relativistica. Non sono relazionali, ma relazioniste, in quanto risolvono la persona nelle relazioni sociali senza residui.

La visione della sociologia relazionale che propongo poggia invece su un’ontologia sociale realistica che è stratificata, perché distingue la persona come agente intenzionale, come attore in un ruolo, come essere umano capace di trascendenza, e poi perché attribuisce alle relazioni, interne ed esterne alla persona, una realtà strutturata e strutturante, non relativistica.

La società forma la persona, non la produce

Le relazioni che formano la persona non sono un puro fluire processuale, come pensano i relazionisti (per esempio Anthony Giddens, Dépelteau e molti altri2), i quali risolvono la sostanza della persona nelle relazioni delle prassi quotidiane. Per la sociologia relazionale, la sostanza e la relazione sono co-princìpi della realtà3. Questa affermazione, derivata dalla teologia trinitaria, io la traduco sul piano sociologico così: la relazione sociale non è derivabile dalla sostanza e viceversa la sostanza non è derivabile dalla relazione.

In breve, chi ignora la costituzione intrinsecamente e strutturalmente (non occasionalmente) relazionale della persona, nella sua vita interiore e in quella esteriore (che, del resto, sono connesse), vuoi perché considera la persona come una sostanza a sé (l’individuo “in sé”), vuoi perché la considera come pura relazionalità, fallisce miseramente nel dare conto di ciò che è l’essere umano “realmente”.

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Nella relazionalità sociale della persona c’è un esperire soggettivo di vita interiore che è irriducibile alle determinazioni della società, e tuttavia la società può indirizzare questa vita interiore in tante e diverse direzioni a seconda di come tratta le relazioni sociali.

Le teorie sociologiche oggi più diffuse sono quelle costruttiviste a cui ho appena accennato. Sono insidiose perché giocano sull’ambiguità dell’idea che la persona, in quanto “essere sociale”, sia un prodotto della società. La sociologia relazionale obietta ai costruttivisti che la persona si forma e viene formata nelle relazioni, dalle relazioni, con le relazioni sociali, ma ha una sua costituzione originaria che la società è chiamata a sviluppare. La persona è costituita da vari ordini di realtà (bio-psichica, sociale, pratica e trascendentale) e il problema sociologico è comprendere come essa prenda forma connettendo questi vari strati di realtà mentre vive in società. Ciò avviene attraverso le relazioni sociali, che danno forma alla sua identità, personale e sociale, la quale ovviamente cambia lungo il ciclo di vita.

La teoria relazionale porta con sé una profonda novità rispetto al pensiero pre-moderno e moderno. Vediamo in che senso.

La novità rispetto al pensiero premoderno

Per quanto riguarda il pensiero premoderno, possiamo dire che la definizione classica, consacrata da Boezio, secondo cui la persona è una “sostanza individuale di natura razionale” (rationalis naturae individua substantia) appare limitata e dev’essere riformulata. Si può ben comprendere l’importanza di questa definizione per salvaguardare la capacità dell’uomo di elevarsi alla coscienza razionale di sé e alla libera determinazione di sé stesso (libero arbitrio) se pensiamo alle vicissitudini storiche del periodo in cui Boezio scrive, dopo la caduta dell’impero romano, tra la fine del V e l’inizio del VI secolo d.C. Non era scontato allora, né lo è oggi, mettere in rilievo l’individualità della persona, la sua autonomia, la sua razionalità. L’importanza della definizione boeziana risulta anche dal fatto che è stata ripresa da Tommaso d’Aquino, che definisce la persona come «l’essere che sussiste per sé stesso nella natura intellettuale». È certamente importante sottolineare l’aspetto della sussistenza spirituale della persona, cioè del suo essere spirito incarnato in un corpo, volendo con ciò significare che l’essere umano non può essere strumento di nessuno, e ciò comporta una specifica dignità. Tuttavia, dire che esiste l’individuo in-sé e per-sé senza fare riferimento alle relazioni sociali che gli danno una forma può dare luogo a molti errori.

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In effetti, la prospettiva boeziana, giustificata dai secoli in cui fu adottata, non può essere più accolta in modo semplicistico. Le tre proprietà che secondo Boezio distinguono la persona umana da ogni altro ente (individualità, sostanzialità, razionalità) debbono essere riviste secondo un’ontologia sociale relazionale. Ciò significa declinare relazionalmente la differenza specifica della persona umana, ossia:

(i) l’individualità si genera per relazionamento, sia fra le sue componenti interne, sia in rapporto ad Altro da sé (sul piano sociologico, la differenziazione di ogni persona si costituisce attraverso la singolare intersecazione delle reti o cerchie sociali di appartenenza);

(ii) l’unione di materia e forma – corpo e spirito – è sostanziale ma non è immutabile, in quanto emerge nello spazio-tempo secundum relationem, cioè attraverso la relazionalità che la connette al mondo;

(iii) la razionalità della persona umana dev’essere qualificata diversamente dalla capacità cognitiva di altri esseri, naturali o artificiali (come le AI), definendola in senso relazionale, cioè come “razionalità relazionale” basata sulla riflessività personale e sociale che gli altri esseri non hanno4. Non basta che la razionalità sia riflessiva in sé, dev’essere riflessiva anche sulla relazione con Altro da sé, il che significa che non basta la prospettiva della prima persona, ma occorre assumere anche la prospettiva della seconda persona.

Individuo in relazione

Per quanto riguarda la novità del pensiero relazionale rispetto al pensiero moderno, basta osservare che la modernità ha ridotto la persona all’individuo di una specie, senza residui, immunizzando l’individuo dalle relazioni sociali. Così ha perduto la socialità naturale della persona. Il processo di modernizzazione ha dato una spiegazione evoluzionistica della persona, considerandola come il risultato di un salto evolutivo fra le specie animali. Arrivando ad affermare che la persona umana «è un bello scherzo della natura», ossia un errore – è però bello (!) – dell’evoluzione5.

La sociologia relazionale si distacca sia dal pensiero antico sia dalla modernità per il fatto che la persona è un individuo-in-relazione, laddove la relazione sociale non è un’espressione della sua sostanza, o un’aggiunta o un complemento, ma è la realtà costitutiva, intima e ontologica, della persona.

L’espressione “persona come individuo-in-relazione” è densissima di contenuti per via delle lineette che indicano delle connessioni (cum-nexi) intrinseche e strutturali fra l’individuo e il mondo. Essa significa che – dal punto di vista sociologico – l’individuo non esiste fuori della relazionalità in cui è immerso, e tuttavia, proprio perché, come ho già ricordato, sostanza individuale e relazione sociale sono co-princìpi della realtà concreta della persona, quest’ultima può essere allo stesso tempo immanente e trascendente rispetto alla relazione.

In grande sintesi, ecco dunque la novità portata dalla sociologia relazionale: la persona umana non è una sostanza posta a priori e sempre identica a sé stessa (semantica monistica premoderna), e neppure si costruisce in base a un principio dialettico di differenza con altro da sé (semantica differenziale propria della modernità a partire da Hegel, dopo che Cartesio aveva scisso la realtà in res cogitans e res extensa), ma si forma nella relazione ad Altro da sé (semantica relazionale del realismo critico). Questi tre modi di intendere la persona corrispondono a tre matrici ontologiche da cui, volenti o nolenti, ogni scienza sociale dipende. Vediamole più in dettaglio.

Tre paradigmi della persona

Propongo una comparazione molto sintetica e semplificata fra le tre prospettive della persona che spiegano la diversità fra le varie sociologie in quanto esse derivano da differenti assunzioni di ordine ontologico. Si tratta delle prospettive sostanzialista, costruttivista e relazionale.

(I) La semantica sostanzialista (ontologia irrelata), prevalente nel mondo premoderno, è monistica nel senso che l’identità della persona (A) è data da una semplice relazione di uguaglianza con sé stessa (secondo un codice simbolico identitario: A=A). Non c’è bisogno della relazione per trovare la propria identità. L’identità è data dallo stesso Io (Io sono Io, il medesimo di sempre, nonostante tutti i cambiamenti nel tempo e tutti i confronti con altri). Di qui un tipo di umanesimo (il cd. personalismo tradizionale) per il quale la persona umana è un essere sociale in quanto si proietta (proietta sé stesso) nel mondo. Nel campo delle scienze sociali, questo significa concepire la persona come un essere identitario, iposocializzato, da cui derivano varie teorie individualiste, come quella della scelta razionale (rational choice) e quella che afferma che «la società non esiste, esistono solo gli individui» (Margaret Thatcher).

(II) La semantica moderna (ontologia dialettica) compie nuove operazioni: concepisce la persona come un essere che si afferma per differenza da altro da sé e che dipende dalla dinamica storica evolutiva. Qui, l’identità della persona (A) è data da una relazione di negazione di ciò che essa non è [A = non (non-A)]. Dunque: “Io sono Io” perché sono diverso da te, e la mia identità sta nel negare la tua identità. Il principio di identità è una doppia negazione, secondo un codice simbolico binario (0/1, destra/sinistra ecc.). Si suppone che, attraverso queste opposizioni, la società e la persona “progrediscano”. Di fatto, concependo l’identità come differenza (Io sono il “non-altro” – sono differente – rispetto a tutto e a tutti) si arriva a un umanesimo anti-essenzialista. La persona non ha più una natura data, ma si costruisce attraverso processi dialettici di differenziazione, più o meno favoriti dalla società, che portano concludere che la persona sia solo «un punto di riferimento per la comunicazione» (Niklas Luhmann), un po’ come la maschera degli antichi greci. Su questa base nascono tutte le sociologie oppositive dell’Ottocento e del Novecento, che oggi approdano alle teorie del gender, alla cancel culture, e a tutte le sociologie caratterizzate da una dialettica negativa.

(III) La terza semantica a cui mi riferisco emerge dalle rovine di quella moderna, per superare le aporie della modernità, non certo per ritornare al passato, tenendo conto del nuovo orizzonte scientifico (teoria quantistica) e dell’ambiente comunicativo creato dalle nuove tecnologie (ICT, AI, robot). Per questo parlo di una semantica dopo-moderna o trans-moderna. Essa è basata su un’ontologia relazionale secondo la quale l’identità di A è data da una relazione R (azione reciproca) con l’Altro (il non-A) che genera l’identità di A come effetto emergente (secondo un codice simbolico generativo). L’equazione diventa: [A = Relazione (A, non-A)]. Interpretata alla luce del realismo critico relazionale, questa semantica vuole cogliere il bisogno di una cultura delle relazioni umane e sociali dopo che la modernità le ha stravolte.

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La persona ha bensì un’identità originaria che permane nel tempo (idem), ma occorre tenere conto del fatto che non ci troviamo più nel mondo naturale del passato, bensì sempre più artificiale. Il che significa che è necessario concepire l’identità della persona come un ipse, cioè un Io-relazionale che cambia nel tempo. L’ipseità relazionale significa che Io ri-trovo me stesso riflettendo sulla relazione con un “Altro” da cui sono stimolato a trovare la mia identità in ciò che, allo stesso tempo, mi distingue e mi connette all’Altro. Si affaccia così un nuovo genere di umanesimo, né tradizionale né dialettico: un umanesimo relazionale. L’essenza della persona umana viene a consistere in una dignità originaria intransitiva che si specifica nella relazione che il Sé ha con un Altro che lo costituisce “relazionalmente” per alterità6.

La persona trova la propria identità nel ritrovarsi sempre di nuovo come lo stesso Self di sempre mentre prende atto dei propri cambiamenti dovuti alle relazioni con Altro da Sé, che impongono una comparazione con il Sé di altri momenti e luoghi per ritrovarsi come identico a Sé stesso nonostante e proprio in virtù delle relazioni sociali vissute.

In questa esperienza vitale si vede come la relazione all’Altro sia essenziale per dare una forma sia all’identità personale (che è la risposta alla domanda: chi sono io per me?) sia all’identità sociale (che è la risposta alla domanda: chi sono io per gli altri?). La riflessione interiore (chi sono io e che cosa voglio per me?) non può essere disgiunta dalla riflessione sulle relazioni con gli altri (chi sono io per loro e come mi vogliono?). In ciò troviamo l’ambivalenza della relazione, che viene mossa dalla vita interiore ma deve rispondere alle relazioni con gli altri in un certo contesto sociale. È qui dove si gioca la libertà della persona umana, che ovviamente può prendere varie strade.

Per la sociologia relazionale la libertà consiste nello scegliere da chi dipendere, non già nel non dipendere da niente e nessuno, che è l’assunto delle sociologie relazioniste per le quali sono i contesti relazionali a decidere in modo ineluttabile l’identità dell’Io/Sé.

Si comprende così perché la persona umana non si realizzi né nel singolo atto che compie con un’autodeterminazione avulsa dalle relazioni, né distinguendosi per differenziazione oppositiva rispetto al mondo, ma invece trascendendosi nella relazione sociale con l’Altro. È questa caratteristica che qualifica l’umano come tale, dato che nessun altro essere, naturale o artificiale, può trascendere sé stesso nella relazione rimanendo sé stesso (come accade nell’esperienza delle relazioni di amicizia e del dono).

Sciogliere gli enigmi della modernità

Dopo aver respinto la definizione sostanzialista a priori della persona umana, la modernità ha dovuto affrontare il dilemma di fondo di tutta la problematica personalista, che è quello della circolarità che lega la persona alla società. L’enigma è il seguente: se la persona è il generato e il generante, se è figlio e allo stesso tempo genitore della società, dove sta la sua autonomia? Come si esce da questa circolarità? Bisogna risolvere l’enigma della relazione fra generante e generato, ossia bisogna spiegare come sia possibile che la relazione persona-società leghi i termini che collega mentre nello stesso tempo li tiene separati e addirittura ne promuove la distinzione.

Per la sociologia moderna non è più disponibile la soluzione della metafisica classica, che risponde all’enigma della relazione ricorsiva fra persona e società separando i due livelli di realtà, quello della persona (il generante) e quello della società (il generato), trattando asimmetricamente la persona come realtà sostanziale autonoma e la società come realtà accidentale. Siffatta soluzione risulta semplicistica e impraticabile per una società altamente complessa in cui tutto viene relazionato a tutto. È comunque vero che la stessa sociologia moderna viene poi a trovarsi in contraddizione con sé stessa quando deve affrontare il problema della libertà, perché la libertà della persona implica il riconoscimento di una autonomia né prodotta né causata dalla società.

La sociologia si trova ancora oggi di fronte all’opposizione fra chi esalta la persona come agente libero e intenzionale e chi la vede come prodotto delle strutture sociali (agency vs structure). Il dibattito non approda a nulla perché non si vede ancora che è la relazione, costitutiva della persona, che media fra l’agire e la struttura sociale.

Archer ha tentato di risolvere il problema sostenendo che la mediazione fra agire e struttura sociale viene svolta dalla conversazione interiore della persona, sul presupposto che le persone abbiano «una priorità temporale» sulla società e abbiano «poteri indipendenti dalla mediazione sociale»7. Questa proposta è per me importante, ma insufficiente, e in certa misura fuorviante, perché la persona entra in una società che esiste già e i suoi poteri vengono esercitati in un contesto relazionale che le è dato. La prospettiva che esalta il potere individuale (individuato nella “mente” umana) della persona ha certamente la buona intenzione di preservare e rilanciare l’autonomia della persona, ma, a mio parere, ha il difetto di negare la mediazione sociale esercitata dalle relazioni.

Una visione della persona umana centrata essenzialmente sulla conversazione interiore condotta in prima persona rischia di portare a un certo individualismo. Inoltre, identificando l’essenza della persona con la sua attività mentale, questa tesi risulta problematica, perché, alla fine, su tale base, scompare la distinzione fra l’umano e il non-umano, in concreto fra le persone umane e le intelligenze artificiali, che pure hanno una “mente”. Per questo, considero rischiosa la proposta di Archer che invita a considerare come “amici” anche i robot dotati di un’AI sofisticata8. Ritenerli “amici” degli esseri umani sulla base del fatto che possono agire riflessivamente in prima persona mi pare poco sostenibile.

La teoria relazionale prende un’altra strada. Sostiene che la condizione umana è caratterizzata dal fatto che la persona trova la sua identità nel rientrare in sé stessa delle distinzioni relazionali significanti rispetto a sé stessa, agli altri, e al mondo. Ossia agisce non solo in prima persona, ma anche in seconda persona. Il fatto che questa operazione non possa essere fatta da nessun altro ente, vivente o meno, porta a ridefinire il personalismo in termini di “essenzialismo relazionale”9. Su questa base poggia la possibilità che la persona umana sia, o meglio diventi, un “soggetto relazionale”10 capace di confrontarsi con la realtà dura delle relazioni sociali. Tale confronto può essere affrontato solo con la riflessività relazionale esercitata non su noi stessi ma sulle nostre relazioni e sui loro effetti. Il soggetto relazionale è quello che sa distinguere fra beni e mali relazionali dovuti all’uso corretto oppure distorto della prospettiva della seconda persona.

La teoria relazionale non considera le relazioni solo come un fatto costrittivo e vessatorio nei confronti dell’individuo (the vexatious fact of society, di cui parla Archer), ma anche come risorse che le persone stesse creano attivando delle reti di opportunità. Solo così si può andare oltre l’immunizzazione dalle relazioni sociali che la modernità ha favorito e continua tuttora a sostenere, aiutata in questo dalle pandemie come quella del Covid-19, isolando e alienando le persone.

La visione relazionale della persona

La persona nasce dotata di una natura bio-psichica che opera in modo potenziale rispetto al campo sociale in cui entra. Questa potenzialità è una latenza che dev’essere continuamente ri-attualizzata nel tempo passando attraverso il campo delle interazioni e pratiche sociali a cui la persona partecipa. La persona possiede un senso dell’Io/Self, ma deve giocarlo in relazione agli altri. Lo fa, crescendo da bambino ad adulto, entrando a poco a poco nelle varie sfere sociali. All’inizio, è nell’ambiente della famiglia, in cui si sente chiamata con un nome, che è il suo Me (“mi chiamano così”). La persona si trova qui in uno spazio privato, dal quale deve uscire affrontando una realtà collettiva, che è quella del Noi oltre la famiglia. Per il bambino questo è lo spazio della scuola e delle prime amicizie e dei gruppi primari, in cui forma il primo senso del Noi collettivo. In seguito, da adulto, questo è il mondo delle appartenenze alle varie associazioni sociali (agenti corporati) che attribuiscono all’Io altri significati del Noi. Al di là dell’essere un agente primario e un agente collettivo, c’è lo spazio pubblico in cui la persona è chiamata a diventare un Tu attore, cioè auctor, in un ruolo sociale pubblico significativo. Agendo in quel ruolo, la persona si trova a rispondere a bisogni esistenziali che hanno a che fare con il mondo dei valori ultimi, quindi la persona deve fare di sé stessa un mezzo per realizzare quei valori.

Sono questi passaggi che consentono alla persona di diventare “più umana”, cioè trascendersi, stando nel mezzo della società, se non vuole perdersi nel grande mare di una società caotica che tende a inglobarla. Questo compito diventa particolarmente difficile a fronte di una società ipertecnologica che crea un ambiente artificiale e comunicativo che preme per portarla verso il post/trans-umano.

Diversamente da quanti accordano lo status di persona alle AI, ai robot, agli androidi, chiamandoli “persone digitali” (come fa Gunther Teubner), o a chi pensa che le persone umane siano destinate a diventare degli “attanti” ibridati (si veda Bruno Latour), la teoria relazionale sostiene che il concetto di persona debba essere sempre utilizzato mantenendo la distinzione fra umano e non-umano.

La visione relazionale ha implicazioni positive di lungo termine. Essa propone un’utopia concreta che consente di pensare e promuovere la capacità delle persone, non in quanto individui ma come soggetti relazionali, di forgiare una società sempre nuova e quindi potenzialmente anche più umana, dopo che la modernità è finita nelle secche dell’anti-umanesimo.

Persona, educazione e istituzioni

Fino a qualche decennio fa, l’educazione delle persone è stata intesa come interiorizzazione (internalizzazione, introiezione) delle norme sociali dettate dalle istituzioni sociali. Questa concezione è ormai crollata. Pensare che la formazione di una persona consista nel farle interiorizzare delle norme che fanno riferimento a modelli collettivi impersonali, anche se autorevoli, non funziona più. L’educazione deve rispondere all’imperativo riflessivo delle persone esercitato nelle loro reti di relazioni.

C’è chi afferma che, senza istituzioni sociali, le persone non possano neppure pensare. Sul piano sociologico lo sostiene, per esempio, Mary Douglas, che afferma: «La reciproca colonizzazione delle nostre menti è il prezzo che paghiamo per pensare»; «L’identità è conferita e fissata dalle istituzioni»11.

Indubbiamente, c’è una parte di verità empirica e pratica in questo. Siamo cittadini, genitori, sposi, figli, professionisti o volontari perché tali ci definiscono le istituzioni corrispondenti. Tuttavia, l’umanizzazione della persona passa attraverso la sua possibilità di trascendere i ruoli sociali. Si tratta di evitare la “colonizzazione istituzionale” delle nostre menti. Laddove queste colonizzazioni sono in atto, e ce ne sono tante, là emergono enormi problemi sociali.

La possibilità di pensare, e di darsi un’identità come esseri umani, abita nella natura relazionale della persona quando agisce come soggetto sociale. Le persone possono umanizzarsi con le istituzioni e attraverso di esse a patto di non avere in esse la loro ragione di esistere e pensare. Per umanizzarsi veramente, devono riflettere su di sé e sulle proprie relazioni con il mondo stando in relazione all’Altro.

Le istituzioni esistono per le persone, non le persone per le istituzioni. Il problema è come evitare le visioni olistiche, organicistiche e funzionalistiche dell’organizzazione sociale, a cui si riferisce empiricamente Mary Douglas, senza cadere nell’individualismo. La risposta è nella visione relazionale della persona.

1  Ritengo necessario specificare “umana” dal momento che oggi si parla di “persona elettronica” e di “persona digitale”, e c’è chi ha proclamato ChatGPT “persona dell’anno”.
2  Cfr The Palgrave Handbook of Relational Sociology, Palgrave, New York 2018. Per una critica a queste sociologie: La teoria relazionale nelle scienze sociali: sviluppi e prospettive, a cura di P. Donati, Il Mulino, Bologna 2022.
3  Per dirla con Giulio Maspero, «la relazione è coprincipio originario dell’essere insieme alla sostanza» (cfr G. Maspero, Essere e relazione. L’ontologia trinitaria di Gregorio di Nissa, Città Nuova, Roma 2013).
4  P. Donati, Sociologia della riflessività. Come si entra nel dopo-moderno, Il Mulino, Bologna 2011.
5  Luciano Floridi, The Logic of Information, Oxford University Press, Oxford 2019, p. 98: «We are special because we are Nature’s beautiful glitch».
6  P. Donati, Alterità. Sul confine fra l’Io e l’Altro, Città Nuova, Roma 2023.
7  M.S. Archer, Persons and Ultimate Concerns: Who We Are is What We Care About, in M.A. Glendon (ed.), Conceptualization of the Human Person in Social Sciences, Vatican City Press, Rome 2006, p. 262.
8  Id., Considering A.I. Personhood, in I. Al-Amoudi, E. Lazega (eds.), Before and Beyond the Matrix: Artificial Intelligence’s Organisations and Institutions, Routledge, London 2019.
9  P. Donati, Alterità, cit., pp. 75 e 211.
10  P. Donati & M.S. Archer, The Relational Subject, Cambridge University Press, Cambridge 2015.
11  Mary Douglas, Come pensano le istituzioni, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 11 e 91.
La tesi che sorregge il contributo di Pierpaolo Donati, professore di Sociologia nel Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Alma Mater Università di Bologna, è la seguente: chi ignora la costituzione intrinsecamente e strutturalmente relazionale della persona, nella sua vita interiore ed esteriore, sia perché considera la persona come una sostanza a sé (l’individuo “in sé”) sia perché la considera come pura relazionalità, fallisce miseramente nel dare conto di ciò che è “realmente” l’essere umano. La sociologia relazionale, invece, sottolinea come nella relazionalità sociale della persona vi sia un esperire soggettivo di vita interiore che è irriducibile alle determinazioni della società, ma quest’ultima può indirizzare questa vita interiore in diverse direzioni, a seconda di come tratta le relazioni sociali.