Pubblichiamo la Prefazione di Costanza Miriano alla nuova edizione di Un lavoro soprannaturale. La mia vita nell’Opus Dei di Pippo Corigliano.

«No, basta, sono troppo stanca. Devo smettere di prendere impegni. Devo imparare a dire no, qualche volta. La prossima richiesta, qualunque sia, sarà un no fermo e cortese». Cammino per via della Conciliazione (lavoro lì vicino), invasa da turisti e pellegrini per il Giubileo ed è il mio momento “buonipropositi”. Immagino una fantascientifica me stessa piena di buon senso, che fa una cosa per volta e va a dormire quando è ora. Quando squilla il telefono sono carica a pallettoni, e ben determinata a opporre un rifiuto, che sia una cena o un lavoro da fare o una cosa da andare a vedere. Rispondo.

È Riccardo Caniato che mi annuncia la decisione di ripubblicare questo prezioso capolavoro di una delle persone più care che abbia mai avuto, di un amico vero e insostituibile che ha significato tanto per me, di una presenza importante per la mia famiglia. Mi chiede di scrivere la Prefazione. E niente, i miei buoni propositi si arenano a quaranta, quarantacinque secondo dalla loro enunciazione. Come potrei mai dire no a Pippo Corigliano?

Ed eccomi dunque, a presentare questo parziale racconto della vita di un uomo che ha fatto tantissimo per la Chiesa e per la fede, quasi sempre nell’ombra. Dico parziale perché Pippo era molto, moltissimo più di quello che si è concesso di raccontare di sé stesso. Credo che gran parte del bene che ha fatto lo conosca solo lui e le persone che ne hanno beneficiato. Il suo lavoro era appunto soprannaturale, perché non si è limitato a fare per quaranta intensissimi anni il direttore dell’Ufficio Informazioni dell’Opus Dei, ma è stato – in missione per conto di Dio come i suoi amati Blues Brothers, il suo film preferito – un tessitore instancabile, anche se discreto, di relazioni, amicizie, rapporti che spesso hanno conosciuto solo le persone coinvolte, perché Pippo non era certo uno che facesse pettegolezzi, né che raccontasse cose che non fosse necessario o utile o buono raccontare. Non commentava i fatti degli altri, e se parlava di qualcuno, era solo per parlarne bene. Non lo ho mai sentito parlare male di nessuno, mai, e, quando proprio non si poteva dire bene di qualcuno, faceva un discreto colpo di tosse e passava a qualche osservazione meteorologica: che bel sole, stamattina, eh? Quello segnalava che l’argomento era chiuso.

Ho conosciuto Pippo, purtroppo, solo nel 2012: quando uscì il mio primo libro mi contattò incuriosito dal discreto clamore che aveva suscitato. Mi propose di vederci. Si era appena concluso il suo incarico di portavoce dell’Opus Dei, un’organizzazione per me al tempo misteriosa e oscura (ero una semplice parrocchiana di provincia trapiantata a Roma, e la mia fonte di informazione in merito erano i giornali laici che la raffiguravano come una sorta di piovra cattolica, sapevo di non dovermi fidare di loro, ma non sapevo cosa aspettarmi). Io però avevo letto questo libro (nella sua prima edizione) e mi aveva conquistata. Così accetto il suo invito a incontrarci nella residenza nella quale si era da poco trasferito, in Prati, a Roma.

Decido di comprare una giacca per l’occasione, non ne avevo neanche una e volevo darmi un tono. Inoltre, un capo di abbigliamento nuovo aveva qualche pallida speranza di non recare su di sé tracce di cibo spiaccicato dai figli, all’epoca ancora piccoli. Varco quel cancello tutta in ordine (forse tutta proprio no, però almeno diciamo presentabile) e con grande emozione mi presento a quella che pensavo essere una sorta di eminenza grigia. Gli darò del lei? Del voi? Dell’essi?

Esco un’ora dopo, sudata e forse anche struccata per quanto avevo riso (avevo letteralmente pianto dal ridere): Pippo aveva inventato proverbi, detti africani, citato filosofi inesistenti e mannaggia alla mia memoria da pesce rosso, non ricordo nulla. Ricordo solo che pensai: «Voglio diventare amica di questa persona stupenda». Il senso dell’umorismo era un dono proveniente in parte dal suo essere napoletano, a cui doveva anche la sua inarrivabile eleganza nei modi. L’allegria invece era per lui una scelta di fondo dell’anima, come per san Giovanni Paolo II, cosa che mi raccontò Navarro Valls, un’altra persona molto speciale che ho potuto incontrare (e intervistare) solo grazie a Pippo. L’allegria, la simpatia erano proprio uno strumento di apostolato, per Pippo. Voleva in ogni modo possibile avvicinare le persone a Gesù, e si impegnava a farlo volendo bene. Perciò la sua simpatia era proprio in senso etimologico, cercava di “sentire con”. Un altro tratto della sua fede era il suo amore per la Madonna: passava sempre da lei per arrivare a Gesù.

Tra i tanti (ma troppo pochi) ricordi che conservo c’è un viaggio per Latina – andavamo a presentare i nostri libri insieme in una parrocchia – in cui preghiamo il rosario sulla Pontina piena di buche, con il tramonto e la luna che spunta, e le decine si trasformano in dozzine o quindicine. Ogni tanto in mezzo una risata…

Che dire di questi anni di amicizia? Aveva conosciuto tantissime delle persone che contavano, ed era una gioia ascoltare i suoi racconti: Messori, Mondadori, Montanelli e molti altri, in particolare il suo carissimo Ettore Bernabei, che mi ha fatto incontrare, regalandomi una conversazione memorabile con lui (più che conversazione, lui parlava, io e mio marito bevevamo le sue parole). Aveva conosciuto e amato, però, anche tante persone che agli occhi del mondo non contavano, e le portava nel cuore tutte, con uno sguardo pieno di umanità e affetto. Il rigore lo applicava solo a sé stesso, anche se poi sapeva apprezzare le cose belle e buone, a partire dallo sport e dal suo amato mare.

I miei figli lo adoravano, perché sapeva ascoltare, consigliare, custodire nel cuore e proporre strade. Le figlie femmine, in particolare, lo amavano per i suoi complimenti incredibilmente galanti e insieme casti, che le faceva sentire donne anche negli anni in cui non lo erano ancora. Infatti quando veniva a cena non cercavano di darsela a gambe come nella maggior parte dei casi in cui abbiamo ospiti, ma volevano esserci per goderselo anche loro, e direi che non c’è conferma più grande, per un ottantenne, del fatto di essere considerato attraente da dei ragazzi. Perché Pippo, se devo dire il suo tratto essenziale, profumava di Gesù.

Due giorni prima che morisse, poiché era stato da poco il suo compleanno, avevo tanto insistito per averlo a cena, anche se quella sera mio marito lavorava e due dei figli erano impegnati fuori. Un mio amico lo aveva saputo e aveva mandato a casa mia due mega torte, una a forma di otto e una di due, perché soffiasse le candeline del suo ottantaduesimo compleanno. Lui aveva portato una scatola di cioccolatini napoletani da svenire. Custodisco come un anticipo di paradiso quell’ultima chiacchierata in giardino, io, lui e due miei figli.

Che nostalgia, caro Pippo, del tuo sguardo buono e intelligentissimo sulle cose del mondo e della Chiesa, che hai amato con tutto te stesso. Quando vedevi qualcosa di brutto – e lo vedevi perché eri un uomo straordinariamente acuto – soffrivi in silenzio, come, credo, l’ultima volta che ti ho visto. Appena un’ombra che hai messo subito via, fedele a ciò che hai fatto per tutta la vita: combattere perché il bene venisse alla luce, per ricacciare indietro il male senza parlarne se non serviva, con la tua preghiera fedele, il lavoro, le parole, la tua allegria, la tua vita tutta spesa a seminare il bene, ovunque hai potuto, sempre, fino alla fine.

Hai preferito il paradiso, come dice un altro dei tuoi preziosi libri, e credo proprio che tu ora ci sia. Intercedi per noi, carissimo Pippo, mi manchi tanto, e solo il pensiero di rivederti lì – io spero di arrivarci – e di fare ancora tante chiacchierate rende la mancanza accettabile.