I totalitarismi del Novecento sono stati affrontati in modo speculare e profetico da due «romanzi-mondo» come Vita e destino di Vasilij Semënovič Grossman (Berdyčiv, 1905 – Mosca, 1964) e il Cavallo rosso di Eugenio Corti (Besana in Brianza, 1921 – Besana in Brianza, 2014). In questo affascinante studio Stefano Vergano invita a rileggere questi due attualissimi capolavori che offrono risposte diverse al tema del male, ma che sono accumunati da un’inestinguibile sete di verità e dall’attenzione ai personaggi più umili risucchiati nel gorgo della Storia. Segnaliamo inoltre che è appena uscito in libreria il romanzo Stalingrado di Grossman (a cura di Robert Chandler e Jurij Bit-Junan, traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi, Milano 2022, euro 28); per conoscere invece il «cantiere creativo» di Corti restano indispensabili i suoi «Diari di guerra e di pace» raccolti in Ciascuno è incalzato dalla sua provvidenza (Ares, Milano 2021, pp. 664, euro 24). Nelle due foto: sopra, Eugenio Corti verso il 1942, prima della partenza per la Russia; sotto, Vasilij Grossman con la divisa dell’Armata Rossa a Schwerin, Germania, nel 1945.

Guerre, rivoluzioni, progressi, false ideologie e tensioni ideali trasformate in malattie morali; il Novecento è stato raccontato e dipinto in molti modi, in mille sfaccettature. Benedetto XVI, con una metafora folgorante, ha definito il XX secolo come il «Venerdì Santo dell’umanità»1, cogliendo in una sola frase tutto il dramma racchiuso in un’epoca contraddittoria, di cui si è spesso vanamente cercato di trovare un significato. Il “Venerdì Santo dell’umanità” è l’ora della solitudine dell’uomo, l’ora dello squarcio del cielo, del mistero della morte che sembra non lasciare più spazio alla speranza, ma allo stesso tempo è il momento dell’abbandono consapevole, del consummatum est. I racconti della Passione ci pongono di fronte scene diverse, ma non per questo contrastanti. Se in Matteo tutto si conclude con un grido straziante, in Giovanni il trapasso avviene quasi nella gloria, in un’atmosfera che lascia intravedere il compimento della promessa, facendoci già pregustare quell’immagine straordinaria dell’uscita dal sepolcro, dipinta magistralmente da Piero della Francesca. Anche il dramma del Novecento, come la scena della Passione, ha i suoi racconti complementari, fra morte e redenzione, e proprio in questo parallelismo sta tutta la genialità della metafora ratzingeriana.

Fra le molte narrazioni del XX secolo, del “Venerdì Santo dell’umanità”, due autori, troppo spesso dimenticati, svettano con i loro romanzi ciclopici: Eugenio Corti con Il cavallo rosso e Vasilij Grossman con Vita e destino. Nei loro testi rivivono lo spirito, le tensioni e le attese autentiche dell’uomo del Novecento, o quantomeno del mondo occidentale. I due racconti si completano e le storie si intrecciano, anche geograficamente.

Grossman, in diversi passaggi, che rendono omaggio a uno dei luoghi più martoriati del Secondo conflitto mondiale, sottolinea il rilievo eccezionale della città in cui si svolgono molte delle vicende di Vita e destino:

«La Seconda guerra mondiale è stata un’epoca dell’umanità e in quegli anni Stalingrado è stata la capitale del mondo. Stalingrado era i pensieri e le passioni del genere umano. Era per Stalingrado che funzionavano fabbriche e industrie, rotative e linotype, per Stalingrado i leader di partito salivano sulle tribune»2.

A poche centinaia di chilometri dal centro del mondo, Eugenio Corti vive i giorni concitati della ritirata di Russia, nell’inverno del 1942, tra la piana di Arbusov e Millerovo, dove ambienterà numerosi capitoli dell’epopea del Cavallo rosso, raccontando le storie di Ambrogio, Stefano, Michele Tintori dei valorosi alpini italiani.

In cerca della verità

Dal candore solenne delle steppe innevate si dipanano le trame dei due grandi romanzi, con la grande storia sullo sfondo e le vite dei protagonisti al centro del racconto. Due autori diversi, due stili narrativi differenti, ma accomunati da un elemento essenziale di straordinaria forza; la verità sopra ogni cosa, oltre le ideologie e gli steccati, sopra i potenti del mondo e i loro soprusi.

Proprio dalla cieca oppressione, che affoga i destini di milioni di uomini, i due autori fanno riemergere la libertà e la dignità dell’uomo, profondamente radicate nella Verità; Verità trascendente in Eugenio Corti e nei suoi personaggi quasi epici, e Verità che l’umanità ritrova soltanto in sé stessa, in Grossman e nelle tante storie raccontate, che accompagnano il lettore del romanzo.

Tutto il racconto dello scrittore russo, dissidente del regime sovietico, è un incessante inno alla vita, una vita capace di trionfare su tutto e in ogni luogo, perfino nel lager e sotto le bombe. Sono molti i personaggi e gli episodi di Vita e destino dai quali emerge il senso profondo di questo primato della vita e dell’umanità.

Un vegliardo dalla lunga barba bianca, con un grande giaccone blu, uno di quei personaggi capaci di sintetizzare, in una descrizione di una sola riga, l’archetipo dell’anima russa, si complimenta con Spiridonov, uno dei protagonisti del romanzo, per la nascita del nipote, con un breve discorso in cui il vecchio sottolinea come ci si fosse quasi dimenticati che la vita può ancora nascere anche in mezzo al peggiore degli assedi: «Per aver portato una nuova vita in questo tormento sua figlia si merita una stella di un paio di chili»3.

Anche l’amore, nella sua dimensione affettiva e in quella più carnale, è per Grossman un mezzo di trasfigurazione del dolore della guerra, grazie al quale i suoi personaggi riescono a tornare realmente vivi, anche se per un solo istante. Due episodi, brevi e straordinari, testimoniano tutta la potenza dell’amore raccontato dallo scrittore russo. Entrambi sono ambientati nel corso dell’interminabile e straziante assedio di Stalingrado, ma dai lati opposti delle barricate. Il primo è la descrizione della passione travolgente tra Katja e Saponiskov, che si ritrovano una tra le braccia dell’altro proprio in una delle notti dei bombardamenti più intensi. Nel buio della notte, i due amanti scoprono il corpo dell’altro soltanto grazie agli sprazzi e ai bagliori di luce che arrivano dal lancio dei razzi e dalle fiamme.

«La luce di un razzo. Le loro teste si avvicinarono. Lui la abbracciò, lei chiuse gli occhi […]. La sua mano sentiva il calore del corpo di lei. Katja cercò di mettersi seduta, ma lui riprese a baciarla. Un nuovo sprazzo di luce rischiarò per un attimo il berretto di lei, a terra sui mattoni, e anche il suo volto, che in quegli attimi gli parve di conoscere. E poi il buio tornò, nerissimo»4. 

Il secondo episodio ci è regalato dalla storia commovente del tenente tedesco Bach, prima dell’assalto finale e suicida dei battaglioni tedeschi, giunto ormai l’ordine da Berlino, contro ogni logica strategica, che il Terzo Reich non sarebbe mai indietreggiato. L’ufficiale, per l’ultima volta prima dell’attacco decisivo, fa visita alla prostituta russa, frequentata ormai da mesi. In quel momento, che potrebbe essere l’ultimo sfogo dell’istinto carnale di un soldato – un’altra forma, questa, della violenza che caratterizza da sempre tutte le guerre –, il tenente Bach si scopre innamorato della prostituta e sperimenta un sentimento più grande, che dà senso all’esistenza, sovrastando il dramma in corso. Nello stesso tempo, la donna comprende il sentimento del soldato, e da vittima diventa partecipe della sofferenza dell’altro:

«Lui le diceva che in quel sotterraneo, baciandole i piedi, aveva capito per la prima volta con la carne, e non da parole altrui, cosa fosse l’amore […]. I muri eretti dagli Stati, il furore razziale, la cortina di fuoco dell’artiglieria non significavano niente, nulla potevano contro la forza dell’amore… Ed era grato alla sorte che gliel’aveva fatto comprendere prima di morire»5.

Nella grande storia

I due racconti delineano chiaramente il quadro di una visione della storia e dell’esistenza umana. Il romanzo è ambientato nel cuore della grande storia, ma al centro della scena non ci sono un susseguirsi di date, battaglie e narrazioni sui potenti della terra. L’essenza del racconto sta nel complesso intreccio delle vite dei personaggi, nelle loro aspirazioni, nei loro sentimenti e nelle loro idealità. È significativo che in Vita e destino appaiano, come mere comparse, i grandi personaggi della storia. Hitler, Eichmann e, soprattutto, Stalin hanno la loro piccola parte nell’intreccio del romanzo. Ma la loro funzione, nella complessa trama dell’opera, è decisamente meno importante rispetto a quella dei moltissimi personaggi che costellano tutto il libro. In questo sta quasi un ribaltamento della storia operato da Grossman. L’attesa composta, ma gelida e nevrotica, di Stalin, in attesa di notizie dal comando dell’Armata Rossa a Stalingrado, sfugge in poche righe, lasciando il posto agli abbracci di Katja e Saposnikov e all’ultimo atto d’amore del tenente Bach. Nel capovolgimento dei ruoli, in cui i potenti da cui tutto dipende fanno solo da pallido sfondo alla vita delle persone comuni, sembra di poter vedere un riflesso della profondità del pensiero di un grande filosofo spagnolo della prima metà del Novecento, Miguel de Unamuno, che ha coniato la straordinaria espressione di intrahistoria. Per Unamuno, il concetto di intrahistoria identifica la concretezza della vita dei popoli, nella loro semplice e quotidiana adesione alla realtà, perennemente offuscata e messa in secondo piano, quando non violentata, dagli sconvolgimenti della storia e dalle follie di ideologie disumane. Un’idea forse ammantata di un certo romanticismo, ma frutto di una chiara sete di verità. L’intera costruzione di Vita e destino risponde esattamente alla logica di Unamuno, salvo il fatto che nel pensatore spagnolo, come in Eugenio Corti, questa visione del mondo è sorretta da una spiccata religiosità.

L’interpretazione del pensiero di Grossman è piuttosto agevole in questo senso. L’autore stesso, infatti, affida il suo messaggio alle riflessioni dei personaggi e alla potente conclusione del libro. A metà della narrazione, nel lager, il prigioniero Mostovkoj legge alcuni fogli, trovati quasi per caso, scritti dal compagno Ikonnikov. Senza dubbio sono alcune tra le pagine più dense e significative dell’intero romanzo, nelle quali la narrazione dei fatti viene momentaneamente sospesa, quasi a voler dare un significato e una chiave di lettura a quanto è già stato raccontato e a quanto ancora si racconterà.

Quello di Ikonnikov è un lunghissimo flusso di coscienza, nel quale emerge, con prepotenza, la ribellione dell’umanità, di un’umanità atemporale e universale, in cui viene ricostruita l’intera storia del mondo e del confronto costante tra bene e male. Sul banco degli imputati sono tutte le ideologie e le dottrine filosofiche che cercano di plasmare o trasformare la natura dell’uomo, a partire dal comunismo, a cui Ikonnikov fa espressamente riferimento. Ma l’accusa non è meno indulgente nei confronti delle religioni e del cristianesimo, definito come la «dottrina più umana dell’umanità», ma che non ha saputo sottrarsi al destino di sopraffazione delle ideologie secolari, finendo per costare «sofferenze maggiori dei misfatti di criminali e briganti malvagi per natura»6. È difficile non vedere in queste pagine la stessa logica di Unamuno, ma depurata di ogni tensione religiosa. Nelle parole di Ikonnivov, la salvezza dell’umanità è in sé stessa, perché tutte le forze che hanno agito per educare l’uomo hanno finito per forzare e fare una pressione violenta sulla natura umana.

«Il bene», si legge ancora nei diari del prigioniero, «non è nella natura, non è nelle prediche di apostoli e profeti né nelle teorie di grandi sociologi o capi di Stato, né nell’etica dei filosofi… […] E dunque oltre al bene grande e minaccioso esiste la bontà di tutti i giorni. […]. La bontà degli uomini al di là del bene religioso e sociale»7. I figli del popolo russo descritti dallo scrittore, infatti, non lottano soltanto contro l’aggressore nazista, ma sono al tempo stesso vittime del regime bolscevico e nelle parole di Ikkonikov riecheggia la memoria dell’oppressione zarista del passato.

Probabilmente Grossman non condivide totalmente le parole del suo personaggio – perlomeno non le estreme conseguenze, certamente consapevole del rischio di scadere in un facile cinismo, che veda in qualsiasi tensione ideale una minaccia alla tranquillità della vita di tutti i giorni –, tanto che lo stesso Mostovskoj non è del tutto persuaso delle parole del suo compagno. Una smorfia di disappunto colora il viso del prigioniero al termine della lettura dei fogli, quasi che l’autore prendesse, almeno in parte, le distanze dagli accenti più polemici del suo stesso messaggio.

Senza nessuna vena polemico-politica, e più carica di lirismo, è la scena conclusiva del romanzo, in cui Grossman dà definitivamente la sua personale versione del concetto di intrahistoria. Questa volta è un personaggio femminile, l’anziana Alexandra Vladimirovna, centro della famiglia attorno alla quale ruotano numerose storie raccontate in Vita e destino, a riflettere sulla propria esperienza di vita e a trarre le fila di tutto il romanzo. Il pericolo per il popolo russo è ormai alle spalle e la donna rivive dentro di sé gli ultimi anni, densi e turbolenti:  

«Lo conosceva, lo capiva con tutto il cuore il senso della vita che era toccato a lei e ai suoi cari, e per quanto né lei né loro potessero dire che cosa avesse in serbo la sorte, e per quanto sapessero che in epoche tremende l’uomo non è più artefice del proprio destino e che è il destino del mondo ad arrogarsi il diritto di condannare o concedere la grazia, di portare agli allori o di ridurre in miseria, e persino di ridurre in polvere di lager, tuttavia né il destino del mondo, né la storia, né la collera dello Stato né battaglie gloriose e ingloriose erano in grado di cambiare coloro che rispondono al nome di uomini; ad attenderli potevano esserci la gloria per le imprese compiute oppure la solitudine, la disperazione, il bisogno, il lager e la morte, ma avrebbero comunque vissuto da uomini e da uomini sarebbero morti, e chi era già morto era comunque morto da uomo: è questa la vittoria amara ed eterna degli uomini su tutte le forze possenti e disumane che sempre sono state e sempre saranno nel mondo, su ciò che passa e ciò che resta»8. 

La Provvidenza di Corti

Con il messaggio dirompente del finale di Vita e destino, il testimone passa idealmente all’opera di Eugenio Corti. Ancor più che nel romanzo russo, nell’epopea cortiana non c’è spazio per i grandi uomini della storia. La scena è esclusivamente dei personaggi ideati dallo scrittore, alcuni dei quali chiaramente autobiografici. Ma nel Cavallo rosso, la redenzione dai mali del mondo non scaturisce dall’uomo stesso, bensì dall’alto e dal rapporto dell’umanità con la trascendenza. La Provvidenza è protagonista della storia e della vita dei personaggi, i quali si abbandonano a essa con salda fiducia. Alcuni di questi assomigliano quasi a degli eroi epici, ma mai stereotipati e con molte sfaccettature.

È il caso di Manno, coraggioso ufficiale convinto di avere una missione da portare a compimento. Studente modello di architettura, ama insegnare ai ragazzi dell’oratorio di Nomana che «l’arte è l’universale nel particolare». La sua guerra si svolge prima sul fronte africano, da cui riesce eroicamente a tornare, e poi nella risalita della Penisola, nelle file dell’esercito regolare italiano, ormai a fianco degli Alleati. Su tutti, sono memorabili due episodi nella vicenda di Manno, che danno il senso del rapporto profondo che i personaggi di Corti vivono con la Provvidenza.

Durante la fuga da Tunisi, su una piccola imbarcazione recuperata alla rinfusa, la mente di Manno si leva dalla preoccupazione del pericolo di quell’istante e la riflessione si posa sul tema della salvezza e della dannazione. I razzi e le esplosioni sullo sfondo non sono altro se non la rappresentazione fisica delle fiamme dell’inferno su cui l’ufficiale sta riflettendo. L’idea di fondo che muove Manno è che la pretesa di alcuni moderni teologi, secondo cui l’inferno sarebbe vuoto, è soltanto una pia illusione. Dio è amore, certo, ma

«proprio come non era Dio a introdurre gli uomini negli inferni di questa terra: sono loro stessi, gli uomini, che nella loro terribile libertà ci si mettono (che partono ad esempio in guerra gli uni contro gli altri, che inventano il razzismo, eccetera), e lo fanno in contrasto con Dio, andando cioè contro la sua volontà e i suoi comandamenti… “Per poi concludere, magari, i più incoscienti, che Dio non esiste, visto che c’è tanto male sulla terra!”»9.

La stessa tensione spirituale, lo stesso slancio caratterizzano Manno nell’ora suprema, nell’eroica caduta nel corso dell’azione di Montelungo, prima tappa della liberazione dell’Italia. Ferito a morte dai colpi tedeschi, ripresa coscienza per pochi istanti, Manno ripercorre gli eventi più significativi degli ultimi anni e comprende che la sua missione, quella a cui sentiva di essere predestinato, ma non conosceva, era quella di «suggellare la sua opera di trascinatore col sacrificio della giovane vita»10.

Il senso del sacrificio

Il lettore percepisce immediatamente il capovolgimento di prospettiva rispetto ai pensieri dei personaggi di Grossman. In ogni sacrificio c’è un senso, anzi il senso, che l’uomo può trovare soltanto alzando gli occhi al cielo. In questa prospettiva, l’esempio più lirico e commovente di tutto il romanzo è certamente la morte di Giuseppe Grandi, leggendario capitano degli alpini. Qui la scena torna nuovamente nelle sterminate, bianche e gelide steppe della Russia, ambientazione che accomuna i due romanzi. La descrizione del trapasso del capitano degli alpini è quasi un affresco di arte sacra, un coro angelico di una deposizione o di una dormizione. Gli alpini attorniano il loro capitano fisicamente e con i loro canti, fino al momento del distacco.

«Cantavano e piangevano gli alpini valorosi, e c’era nel loro canto paziente tutto lo struggimento della nostra umana impotenza; cantarono anche quando il capitano ormai non cantava più e li accompagnava solo con gli occhi; cessarono di cantare solo quando si resero conto che il capitano Grandi era morto»11.

L’episodio della morte del capitano Grandi, storico e verificato – per Eugenio Corti l’adesione al reale è una vera missione dello scrivere –, ha segnato l’immaginario di molti e l’avventura del grande alpino è oggi ben descritta in un interessante libro di Marco Dalla Torre12. Non è un caso che Corti dedichi uno spazio così denso e significativo – anche se breve – alla vicenda del capitano Grandi, vista la proposizione dell’essere alpino come un vero e proprio modello di vita, tra fede, valore e servizio.

Ciascuno a suo modo, anche gli altri protagonisti de Il cavallo rosso testimoniano la medesima consapevolezza della presenza e dell’azione della Provvidenza nella storia. Da Ambrogio, l’erede di una famiglia di imprenditori brianzoli, che combatte sul fronte russo a cui è stato destinato, a Michele Tintori, lo scrittore affascinato dalla Russia, che ottiene – dopo aver a lungo insistito – di essere inviato anche lui al fronte russo. Sono i due alter ego dell’autore, che si spartiscono equamente le caratteristiche e le gesta reali di Eugenio Corti. Tra i due è Michele il personaggio che interessa maggiormente la nostra analisi, con la sua curiosità intellettuale e con le sue importantissime esperienze umane, dalla guerra al gulag, dalle opere letterarie al termine del conflitto fino alla militanza cattolica negli anni della contestazione e del referendum sul divorzio.

Ma, soprattutto, è attraverso le riflessioni e le parole di Michele Tintori che Eugenio Corti fa conoscere al pubblico la sua personale visione del mondo e della storia. L’origine del male del XX secolo – nel pensiero dello scrittore brianteo – è illustrata proprio dal Tintori. La cornice è suggestiva e densa di significato. Michele è stato catturato dai russi e si trova a prigioniero Suzdal, uno dei luoghi più belli e affascinanti di tutta la Russia, un centro di potere di primordine del Medioevo russo. La città è una continua distesa di monasteri-fortezza e cupole a cipolla, ma nell’epoca staliniana le antiche bellezze dell’Ortodossia sono in totale rovina e la città ospita campi di prigionia e un gulag. Il prigioniero italiano intrattiene spesso i suoi compagni di cella con i suoi discorsi sull’origine dei totalitarismi.

«Senza la filosofia sviluppatasi nell’ambiente e nelle università protestanti, e in particolare senza Hegel e Feuerbach, le teorie di Marx e Lenin non sarebbero mai potute nascere, sarebbero oggi semplicemente inconcepibili. Proprio come – ricordiamolo – senza i discorsi di Nietzsche sul “superuomo” e sulla “volontà di potenza” sarebbe inconcepibile Hitler»13.

Capolavori da rileggere

La riflessione di Tintori sembra quasi la risposta alle pagine dei diari di Ikonnikov, con la stessa tensione contro le ideologie che annichiliscono la dignità dell’uomo, rendendolo un’insignificante pedina di un disegno politico. Per Tintori e per Corti, però, il cristianesimo non rientra certo tra le ideologie che annientano l’umano, come aveva fatto intendere Ikonnikov, ma costituisce, al contrario, l’unica Verità redentrice che le ideologie cercano di sopraffare con la loro violenza. Al centro c’è sempre l’uomo con la sua sete di verità, in opposizione alle menzogne del potere mondano, ma la risposta è nettamente differente. Redenzione che viene dall’umanità stessa e dalla sua libertà e, dall’altro lato, la salvezza che può essere soltanto dono di Dio e, allora, la libertà come adesione all’economia divina. Le riflessioni di Ikonnikov e di Tintori sono così l’immagine di due concezioni del mondo che si confrontano con il XX secolo, riuscendo quasi a riassumere due voluminosi romanzi.

Sarebbe però troppo sbrigativo leggere Vita e destino come un inno a un umanesimo senza trascendenza in opposizione alla visione intrisa di religiosità di Eugenio Corti. Nel romanzo di Grossman, infatti, compare un personaggio, apparentemente secondario, che lascia intravedere un seme di possibile conversione.

È il prete italiano Guardi, prigioniero in un lager nazista con Ikonnikov. La figura dell’italiano appare soltanto in due brevi episodi che delineano un personaggio diverso dagli altri. Guardi, nelle fredde notti del lager, nel silenzio del riposo dei deportati stremati, si raccoglie in preghiera e raccoglie tutto il male di quel luogo per depurarlo con la forza dello spirito. Guardi è il giusto che si carica sulle spalle il male del mondo, come la protagonista del racconto di Solzhenitsyn, La casa di Matrëna.

«La notte, quando gli abitanti del lager si addormentavano, Guardi diventava un altro. Si inginocchiava sul pancaccio e pregava. Tutto il dolore della città dei galeotti sembrava inabissarsi nei suoi occhi infervorati, nel loro velluto nero e profondo. Le vene del collo scuro gli si tendevano come sotto sforzo, il suo viso lungo e apatico assumeva un’espressione di cupa, felice ostinazione»14

Il prete italiano è poi protagonista di un’altra breve scena, nella quale Ikonnikov ha un moto di ribellione e intende rifiutarsi di contribuire alla costruzione delle camere a gas. Ne nasce una diatriba con gli altri prigionieri, che temono pesanti ritorsioni; Guardi si avvicina a Ikonnikov e tutti sono convinti che il detenuto ribelle venga ammonito, a tutela della momentanea sicurezza di tutti. «Guardi, invece, non ammonì Ikonnikov. Portò la sua mano sporca alle labbra e la baciò»15. Nei gesti del prete italiano, che potrebbe essere un personaggio di Eugenio Corti, è racchiuso il seme della redenzione, radicata nella verità e nell’amore.

Con la descrizione di questo personaggio apparentemente secondario, si chiude il cerchio del racconto e del confronto di due romanzi poderosi, due straordinarie testimonianze della storia del Novecento che tornano attuali proprio oggi, in un momento in cui le fredde terre dell’est sono nuovamente al centro di un conflitto, del quale ci saranno da raccontare le storie di tanti, sopraffatti dalle ideologie di poteri e propagande contrapposte.