Nei 100 anni dall’ordinazione sacerdotale (Saragozza, 28 marzo 1925) e nei 50 della morte (Roma, 26 giugno 1975) di san Josemaría Escrivá, Sc ha incontrato mons. Mariano Fazio, vicario ausiliare dell’Opus Dei. «La nostra vocazione è la santità», è stato il leit motiv del discorso, «che non è altro che la lotta per identificarci con Cristo». Abbiamo parlato di «vita interiore», che è proprio ciò che ci porta a conoscere e amare il Signore, nella consapevolezza che i cristiani, ogni cristiano lo è, sono portatori di Cristo al mondo. Argentino, classe 1960, sacerdote e filosofo, già rettore della Pontificia Università della Santa Croce, mons. Fazio ha scritto diversi volumi, in Italia quasi tutti editi da Ares, che aiutano a comprendere il carisma del grande Santo spagnolo, considerato un precursore del Concilio Vaticano II, e della realtà ecclesiale da lui costituita e capillarmente diffusa in tutti i continenti. Allo stesso tempo, nel dialogo con Riccardo Caniato, don Mariano aggiorna al presente l’attualità della figura di san Josemaría e ciò che rende perennemente nuova la sua proposta di vita cristiana. Con Ares ha pubblicato: Con Papa Francesco. Le chiavi del suo pensiero (2013), San Josemaría Escrivá. L’ultimo dei romantici (2019), Cambiare il mondo dal di dentro (2021), Benedetto XVI. Il Papa della fede e della ragione (2023) e Protagonisti del bene comune. San Josemaría Escrivá e i cristiani nella società contemporanea (2025).
L'incontro di mons. Fernando Ocáriz, prelato dell’Opus Dei, e mons. Mariano Fazio con papa Leone XIV

L’incontro di mons. Fernando Ocáriz, prelato dell’Opus Dei, e mons. Mariano Fazio con papa Leone XIV

Nel 2025 cadono due anniversari importanti che riguardano il fondatore dell’Opus Dei, ragione per cui viene spontaneo chiederle, a beneficio di chi ancora non lo conoscesse, qual è il dono di san Josemaría Escrivá per la Chiesa e il mondo anche di oggi?

Il 2 ottobre 1928, san Josemaría ricevette da nostro Signore un messaggio con cui identificò la sua vita: tutti siamo chiamati alla santità, e per la maggior parte degli uomini e delle donne nostro Signore ci chiama a questa santità in mezzo al mondo, nelle circostanze ordinarie della vita. Il lavoro professionale, la famiglia, la rete di relazioni sociali sono l’àmbito in cui dobbiamo santificarci.

Com’è facile intuire, questo messaggio sarà sempre attuale, perché il lavoro, la famiglia e le circostanze sociali, anche se cambiano accidentalmente, saranno sempre presenti nella vita umana. San Josemaría era solito dire che lo spirito che cercava di diffondere nel corso della sua vita era «antico come il Vangelo e nuovo come il Vangelo». San Giovanni Paolo II lo ha definito, con un’espressione molto grafica, «il Santo dell’ordinario».

Quali sono i tratti peculiari di questa santità dell’ordinario?

Ogni santo riflette, in un modo o nell’altro, la santità di Gesù Cristo. Quando la Chiesa propone la vita di un santo alla venerazione del popolo di Dio, ci dice: potete arrivare a imitare Gesù, a identificarvi con Lui, anche attraverso la vita di questo santo. Ciascuna delle persone canonizzate ha messo in luce una qualche dimensione dell’infinita ricchezza della vita di Cristo.

La vita e il messaggio di san Josemaría gettano una luce particolare sulla vita nascosta di nostro Signore, cioè il periodo trascorso a Nazareth prima della sua vita pubblica: un periodo spesso trascurato, ma che è stato redentivo quanto gli altri. La vita di Gesù a Nazareth, fatta di piccole cose della vita ordinaria – i rapporti familiari, le vicende di lavoro nella bottega di Giuseppe, le relazioni amichevoli tra gli abitanti del piccolo villaggio – era santa, aveva un valore redentivo, proprio come la sua vita pubblica.

È in queste circostanze ordinarie che il Signore ci aspetta per vivere del suo amore e donarlo agli altri.

Nel titolo della sua biografia del fondatore – San Josemaría Escrivá, «l’ultimo dei romantici» (Ares, 2019, pp. 240, € 13) – ha messo l’accento su una definizione che merita di essere spiegata perché, per molti, san Josemaría è un santo della modernità, impastato nella vita concreta, nel lavoro, senza fronzoli e sentimentalismi…

Il titolo del libro si riferisce a un’espressione usata dallo stesso san Josemaría. Egli diceva di ammirare i romantici del XIX secolo, che amavano la libertà ed erano pronti a dare la vita per essa. Forse questi romantici non erano cristiani pienamente coerenti con la loro fede, ma avevano un amore per la libertà che batteva nei loro cuori e che volevano vedere incarnato nella vita sociale.

San Josemaría non usava il termine romantico come sinonimo di sentimentale, di “pazzo”, di persona lontana dalla vita normale. Al contrario: abbiamo già ricordato come egli abbia sempre predicato che per un cristiano comune la santità che egli predicava andava cercata proprio in quella vita normale, concreta, ordinaria, fatta di lavoro, famiglia, relazioni sociali.

Allo stesso tempo, la ricerca della santità era un’opera della grazia di Dio, alla quale bisognava rispondere liberamente. San Josemaría era un amante della libertà, tra l’altro, perché senza libertà non possiamo amare, e la nostra vocazione cristiana è una vocazione d’amore.

Capisco che il titolo del libro possa essere fuorviante, ma ammetto che quando ho letto per la prima volta questa espressione di san Josemaría, ne sono rimasto affascinato in modo particolare.

Santità “della porta accanto” e unità di vita

Da quanto dice mi pare di poter dire che il collante tra passato e presente della proposta dell’Opus Dei sia «la chiamata universale alla santità». È corretto?

Certamente, la chiamata universale alla santità costituisce una parte essenziale del messaggio che nostro Signore ha trasmesso a san Josemaría. Come sappiamo, questa idea è uno degli elementi centrali dell’insegnamento del Concilio Vaticano II. Il fondatore dell’Opus Dei era felicissimo di vedere come i documenti conciliari riprendessero questa dottrina.

Prima del Concilio, l’idea che il Signore chiami tutti alla santità non era così diffusa. Si tendeva a pensare che la santità – lo dico con le sue parolefosse «una cosa per i privilegiati». Più precisamente, si pensava che solo coloro che avevano ricevuto una vocazione religiosa o sacerdotale potessero essere santi. Al massimo, un laico poteva aspirare a essere santo nella misura in cui imitava la vita dei religiosi.

Mentre per san Josemaría…

San Josemaría, che amava profondamente i religiosi e aveva molte amicizie profonde con i membri degli ordini e delle congregazioni del suo tempo, spiegava che la chiamata universale alla santità si concretizzava per la maggior parte dei cristiani nella vita secolare, ordinaria, fatta di cose solitamente piccole, forse poco importanti agli occhi degli uomini, ma piene di valore agli occhi di Dio.

In breve, san Josemaría sostenne fin dal 2 ottobre 1928 che tutti siamo chiamati a essere santi, e che per il cristiano comune questa santità doveva essere ricercata nelle circostanze ordinarie, con una spiritualità propria delle persone comuni.

La santità, diceva il Santo, usando un’espressione italiana, «nel bel mezzo della strada». È la santità «della porta accanto» a cui si riferiva papa Francesco nella sua esortazione apostolica Gaudete et exsultate.

Le ideologie oggi dominanti, con le loro implicazioni filosofiche, politiche, psicologiche e sociologiche, rivendicano regole deontologiche e spazi di riferimento e d’azione autonomi per i diversi ruoli umani e professionali che un individuo è chiamato a rivestire nella sua esistenza. Dalla lettura del suo saggio Protagonisti del bene comune. San Josemaría Escrivá e i cristiani nella società contemporanea (Ares, 2025, pp. 112, € 12) traggo invece convinzione che la fede sia totalizzante, investa in pieno la realtà di una persona.

San Josemaría ha coniato un termine molto conciso e significativo: unità di vita. Con esso intendeva dire che la vita di un cristiano dev’essere caratterizzata dalla coerenza tra ciò che si crede e ciò che si vive. La fede non dev’essere espressa solo in chiesa o in una cerimonia liturgica, ma deve permeare tutta la nostra vita. Siamo cristiani in tutte le circostanze della nostra esistenza: nell’adempimento dei nostri obblighi civili, nel modo in cui riposiamo, nelle nostre relazioni familiari e sociali ecc.

San Paolo VI diceva che il mondo contemporaneo ha bisogno di testimoni più che di maestri. Un testimone della fede cristiana dev’essere un testimone nella sua interezza. San Josemaría spiegava graficamente che non si può fare a meno della propria fede nelle azioni pubbliche, come se la fede fosse un cappello che si può indossare in alcune occasioni e non in altre.

Eppure, ci sono personaggi che hanno incarichi nella vita civile che rivendicano la distinzione tra vissuto pubblico e privato, relegando la fede a questo àmbito specifico. Qui in Italia sono i cosiddetti “cattolici adulti”, riprendendo una definizione che si sono dati da sé, adatta allo scopo…

Parte della crisi di credibilità che noi cristiani abbiamo nel mondo di oggi è dovuta alla mancanza di questa unità di vita.

Non mi riferisco solo al caso doloroso degli abusi che si sono verificati e continuano a verificarsi all’interno della Chiesa e che suscitano scandalo, ma anche al cattivo esempio dato da persone che si dicono cattoliche ma che non adempiono ai loro obblighi lavorativi, o che trattano male i loro subordinati, o che non si preoccupano di coloro che soffrono o che hanno più bisogno della nostra vicinanza e del nostro affetto.

Se vogliamo vivere la nostra vita di fede con integrità, nessuna persona che ci passa accanto può essere indifferente a noi. Purtroppo, vediamo tanta indifferenza intorno a noi. È la manifestazione che dobbiamo ritrovare la forza di una fede vissuta in tutti gli àmbiti della nostra esistenza.

La santificazione del lavoro

Può dirci qualcosa in particolare sul tema della santificazione del lavoro?

San Josemaría apprezzava il lavoro come mezzo di cooperazione umana all’opera creativa di Dio. Ricordava che la vocazione umana al lavoro era già iscritta nel Libro della Genesi: Dio ha messo l’uomo e la donna su questa terra ut operaretur, per lavorare.

Oltre a queste considerazioni umane, egli vedeva nel lavoro soprattutto un mezzo di santificazione. Utilizzò tre espressioni per spiegare le diverse implicazioni del lavoro come mezzo di santificazione. In primo luogo, dobbiamo santificare il lavoro, cioè farlo bene, con la massima perfezione umana possibile, con rettitudine d’intenzione, cercando la gloria di Dio, offrendo quel lavoro al Signore. Si potrebbe parlare di dimensione oggettiva del lavoro.

Poi disse che dovevamo santificarci attraverso il lavoro, perché vedeva nel lavoro un àmbito favorevole allo sviluppo di molte virtù umane e cristiane: fortezza, pazienza, umiltà, operosità ecc. Questa era la dimensione soggettiva del lavoro.

Infine, la santificazione degli altri attraverso il lavoro professionale. Qui entrano in gioco lo spirito di servizio, la carità e le opportunità apostoliche di condividere molte ore di lavoro con i colleghi. Questa sarebbe la dimensione comunitaria o interpersonale del lavoro stesso.

Una visione del mondo lavorativo e professionale che pone certamente una bella sfida alla realtà contemporanea, che purtroppo in molti casi non valorizza ma sfrutta le persone.

Nelle circostanze odierne forse san Josemaría ci incoraggerebbe a lavorare meno. Rischiamo di diventare stacanovisti. Siamo pressati da orari a volte disumani, o da un’atmosfera di competitività esagerata che ci impedisce di dedicare tempo a Dio, alla nostra famiglia e a tante persone che attendono la nostra parola, la nostra compagnia e il nostro affetto.

A volte abbiamo trasformato il lavoro in un fine in sé, invece di vederlo come un meraviglioso mezzo di servizio alla società, di santificazione e di apostolato.

In che cosa il prestigio professionale tanto incoraggiato da san Josemaría differisce dall’idea di prestigio comunemente in voga?

Per quanto concerne il prestigio professionale, è importante chiarire in che senso san Josemaría ha usato questa espressione. Una persona competente, nota per la sua onestà, per il suo spirito di servizio, per la sua gentilezza verso tutti, per il suo desiderio di trasmettere la sua esperienza ai più giovani ecc. otterrà necessariamente un prestigio, un’autorità morale sulle persone che la circondano e sarà più facile per lei, usando questa autorità naturale e il prestigio nobilmente raggiunto, esercitare un’influenza positiva sugli altri.

Questo prestigio può essere raggiunto in azienda, a scuola, nel quartiere o nella squadra sportiva di cui facciamo parte. Questo prestigio non ha nulla a che vedere con la vanagloria, con il desiderio di brillare di luce propria, di distinguersi per trarre vantaggio personale da una posizione privilegiata.

San Josemaría incoraggiava tutti noi a porre Cristo al vertice delle attività umane, attraverso il prestigio che acquisiamo nelle nostre attività, svolte con professionalità, fatte fondamentalmente con onestà e in spirito di servizio.

Giovani, vocazione, Opus Dei e il nuovo Papa

In un altro suo libro, Cambiare il mondo dal di dentro (Ares, 2021, pp. 96, € 10), lei insiste sulla necessità di un rinnovamento sociale che parta dalle comunità più piccole, intorno alla famiglia, alla scuola, ai condomini, ai Paesi… e che possa trasformare il mondo sulla base di relazioni sane e buone fondate sull’amore portato nel mondo dal Dio dei cristiani: un amore creativo e generoso allo stesso tempo, capace di auto-offerta e di auto-sacrificio, perché solo morendo un po’ a noi stessi possiamo imparare ad ascoltare e a vivere insieme come fratelli e a costruire società pacifiche che cooperano per il bene comune.

Il contenuto di questo breve saggio non è assolutamente originale. Si tratta solo di alcune riflessioni che mi sono venute in mente dopo aver letto una nota omelia di san Josemaría, pronunciata nel 1967 nel campus dell’Università di Navarra e intitolata Amare il mondo appassionatamente [trad. it. Ares]. In essa spiegava che chi vuole cambiare il mondo in senso cristiano deve prima di tutto amarlo. Gli occhi dell’amore scoprono molte possibilità di miglioramento.

Per essere buoni strumenti di cambiamento, sono indispensabili alcune caratteristiche: identificarsi personalmente con Gesù Cristo, attraverso una vita spirituale profonda e fiduciosa con il Signore; formarsi dottrinalmente per saper diffondere la verità, distinguendola dall’errore; cercare di vivere quell’unità di vita a cui ho accennato prima; avere prestigio tra i miei coetanei, in modo che la mia parola e la mia azione possano avere un impatto sulla vita degli altri; e condurre uno stile di vita evangelico, ispirato alle beatitudini.

La capacità di ascolto, l’empatia, il sorriso abituale, lo spirito di servizio, il cuore di misericordia, renderanno presente Cristo attraverso le nostre povere vite che cercano, con la grazia di Dio, di camminare sulle orme del Signore.

In quest’ottica soprannaturale, quale consiglio darebbe san Josemaría, e lei con lui, a un giovane che si affaccia sulla vita e si chiede se ha una vocazione?

Nella Lettera agli Efesini leggiamo: «In Lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati di fronte a Lui nella carità» (Ef 1, 4). Questa è una delle possibili formulazioni della chiamata universale alla santità.

San Josemaría ha fatto eco a queste parole di san Paolo, per risvegliare in tutti la ricerca di ciò che il Signore ci chiede. Tutti abbiamo una vocazione, ma spetta a ciascuno di noi scoprire ciò che il Signore ci chiede concretamente. L’attuale prelato dell’Opus Dei, mons. Fernando Ocáriz, ripete spesso che, per scoprire il nostro personale cammino di santità, dobbiamo chiedere al Signore la luce per vedere e la forza per volere. Seguire il Signore ed essere fedeli alla nostra vocazione personale ci rende felici nonostante le sofferenze e i limiti di questa vita.

Faccio eco alle parole di Leone XIV nel suo primo Regina Coeli. Rivolgendosi ai giovani e ricordando implicitamente san Giovanni Paolo II, ha detto con voce forte: «Non abbiate paura». Non abbiamo paura di seguire la chiamata del Signore: quando ci doniamo, il Signore si riversa nei nostri cuori e ci riempie del suo amore e del suo zelo per le anime.

Ha citato il nuovo Papa, lo ha conosciuto? È vero che san Josemaría ha sempre raccomandato una profonda venerazione per il Vicario di Cristo?

Innanzitutto vorrei esprimere la mia grande gioia per l’elezione di Leone XIV. Il papa è il padre comune e il periodo di sede vacante è necessariamente doloroso per tutti i cattolici. Fin dal primo momento ho sentito un grande amore per il nuovo Papa, e trovo in questa reazione – che è diffusa tra la maggioranza dei credenti – qualcosa di molto soprannaturale.

Prima della sua elezione l’avevo incontrato solo una volta di persona, e abbiamo avuto un breve dialogo, ma la vicinanza che sento al romano Pontefice non è il prodotto di una simpatia umana, ma il frutto della fede di coloro che lo vedono come il Vicario di Cristo in terra. San Josemaría diceva che dobbiamo amare il Papa, «chiunque esso sia», e ci incoraggiava a ripetere questa giaculatoria: «Omnes cum Petro ad Iesum per Mariam», cioè «Tutti con Pietro a Gesù attraverso Maria».

Qualche settimana fa Leone XIV ha ricevuto in udienza il prelato dell’Opus Dei, mons. Fernando Ocáriz, e ho avuto la grazia di accompagnarlo. È stato un incontro molto affettuoso, in cui ho sperimentato la vicinanza e l’affetto del Papa, la sua capacità di ascolto e la sua trasparenza. Mi ha toccato il fatto che quando ci siamo salutati mi ha ricordato quel primo, unico incontro di due anni fa.

È rimasto colpito dal nome scelto dal Pontefice? Un agostiniano alla sequela di Leone XIII…

Per quanto riguarda questa scelta, è ovvio che si pensi ai suoi predecessori che hanno scelto lo stesso nome. Leone XIII è il padre della moderna Dottrina sociale della Chiesa, e in un mondo ferito da guerre, ingiustizie e violenze abbiamo bisogno della saggezza millenaria della Chiesa perché la pace di Cristo regni nel mondo. Leone XIV, dopo l’elezione, ha dichiarato esplicitamente di essersi ispirato al grande papa Pecci nella sua scelta. E le prime parole sono state un appello alla pace.

Inoltre, il Papa è figlio spirituale di sant’Agostino. Benedetto XVI ha detto che sant’Agostino era un simbolo dell’uomo moderno, perché era alla continua ricerca del senso della vita. Non ho dubbi che Leone XIV offrirà a un’umanità disorientata la risposta alle domande fondamentali che si trova sempre in Gesù Cristo, come ha già ripetuto più volte.

Le risulta che il Papa abbia incontrato e conosciuto l’Opus Dei nel suo ministero precedente?

L’allora monsignor Prevost ha esercitato il ministero episcopale nella diocesi peruviana di Chiclayo, dove per molti anni si è svolta una grande varietà di apostolati dell’Opera. È stato molto vicino a queste iniziative apostoliche e soprattutto alle persone – laici e sacerdoti – che vivono lo spirito dell’Opus Dei in diverse circostanze. In molte occasioni ha celebrato la Messa in onore di san Josemaría e ha tenuto bellissime omelie incentrate sul nostro fondatore.

Ma in questo momento l’importante non è tanto la sua vicinanza o la conoscenza di questa o quella realtà ecclesiale, quanto il fatto che siamo tutti uniti alla sua persona e ai suoi propositi, ispirati dal suo motto episcopale: «In Illo uno unum», cioè «nell’unico Cristo siamo uno». Non ho dubbi che sarà un pontificato che ci unirà tutti intorno al Signore.

La speranza che non delude

Viviamo il Giubileo della speranza 2025. Noto che nei suoi libri – già nei titoli – lei esprime anche nella forma concetti molto empatici e ottimisti, alludendo a uomini e donne protagonisti della loro vita e come tali in grado di trasformare in meglio le cose attorno a loro. Nell’attuale contesto globale di disagio, crisi sociali e familiari, ritiene davvero ancora credibile la sfida dei cristiani, portatori della luce e della speranza che viene da un giorno di Pasqua di duemila anni fa?

Papa Francesco ci aveva incoraggiato all’inizio di questo anno giubilare a vivere nella speranza. Non la speranza umana, che può avere più o meno fondamento, ma la speranza «che non delude», cioè la speranza in un Dio che, per amore nostro, si è fatto uomo e ci accompagna nel nostro pellegrinaggio terreno. Aveva scritto il Papa in Spes non confundit, Bolla d’indizione del Giubileo Ordinario del 2025:

La speranza cristiana, in effetti, non illude e non delude, perché è fondata sulla certezza che niente e nessuno potrà mai separarci dall’amore divino: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fama, la nudità, il pericolo, la spada? […] Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8, 35. 37-39).

Insomma, se si è cristiani, alla luce di queste parole, non ci si può accontentare.

Per un cristiano, una visione meramente umana di questo mondo non è sufficiente: dobbiamo guardarlo con gli occhi della fede. Da questa prospettiva, scopriremo che accanto a tanti mali c’è tanto bene, tante anime che vivono il dono sincero di sé, tanti malati che sopportano con amore i loro limiti e offrono le loro sofferenze per la redenzione del mondo, tanta santità «della porta accanto».

La fede e la speranza non chiudono gli occhi di fronte alla realtà, ma ci permettono di vederla in profondità: l’amore di Dio è sempre con noi, e non c’è potere al mondo che possa separarci da Lui.

Che cosa direbbe san Josemaría ai suoi discepoli adesso?

San Josemaría ha incoraggiato i cristiani a essere «seminatori di pace e di gioia». In un mondo come il nostro, con tanta aggressività nel dibattito pubblico, con tante opinioni pessimistiche, con tanta sofferenza, con tanta mancanza di senso, cerchiamo di diventare seminatori di pace e di gioia, con il nostro sorriso anche quando non abbiamo voglia di sorridere, con la nostra disponibilità a servire, con la nostra volontà di ascoltare, con la nostra compassione.

In questo modo saremo strumenti di cambiamento per ridare speranza a un mondo che sembra averla persa. Saremo, nonostante le nostre miserie, alter Christus, ipse Christus, un altro Cristo, lo stesso Cristo, come amava ricordarci san Josemaría.