Era dal 1948 che quel territorio – dal fiume Giordano al mare – aspettava di riconoscersi ancora in una realtà antica di almeno tre millenni, quando in Palestina vivevano insieme ebrei e palestinesi. Un sogno, un’utopia, un’attesa non più percorribile. La Storia, non la ragione e la speranza, aveva avuto il sopravvento. Il tempo degli ideali possibili era scaduto, naufragati nella reapolitik che giustifica le ambizioni, di Abu Mazen, di Netanyahu, di Trump e di tanti altri sopravvenienti leaders uguali negli intenti e diversi nei modi, di chi in quella terra dove è nato il messaggio evangelico impastato a quello della tradizione ebraica che ha fondato le basi dell’Occidente, vede una possibile occasione di affermazione personale. Chi li insegue non ha capito che quella terra è un luogo fatidico, sovrastato da tensioni che possono e devono trovare alloggio nei cuori prima ancora che nei trattati, perché in quei modi insistono ragioni che hanno una prospettiva che contiene traguardi che toccano il destino dell’umanità.

Era apparso impensabile che un nocciolo così limitato nello spazio potesse contenere tanti significati, che nel corso del tempo si sono radicalizzati non per mala virtù propria, ma per sopravvenuti calcoli a essa esterni. Dall’impero Ottomano al protettorato inglese, la frammentazione subita da quei territori ha determinato divisioni basate su calcoli nazionalistici, impraticabili in quel contesto dove la politica deve fare i conti con altri contenuti ideali che attingono la propria sostanza da fonti religiose e spirituali. Aspetti che le politiche e le diplomazie tradizionali – le stesse che fanno le guerre e poi tentano di disarmarle dopo caterve di vittime e ingiustizie – non annoverano nei loro carnet. Perciò dopo la pace, qualsiasi altro assestamento deve tener conto del fondante ideale che è proprio di quello spicchio di mondo. Ma anche, ed è cosa necessaria e invalicabile, dovendo tener conto delle esigenze di fatto della realpolitik, non vedere i contrasti endemici che la Storia ha contribuito a radicalizzare. Ma Israele ha combattuto Hamas, non i palestinesi.

Esistono un estremismo islamico e uno israeliano – non possiamo chiamarlo ebraico tout court, perché  la Diaspora è unitaria sulla base della ragione non sul nazionalismo intransigente, avendo dovuto nel corso dei secoli acclimatarsi dove la fuga dai pogrom li portava – che vanno entrambi compresi e portati a dialogare, pena un pericoloso stallo, come finora è accaduto. Perché nella realtà “geografica” mediorientale il luogo dello “Stato palestinese” non c’è. Paradossalmente, a Gaza nel corso degli anni – decenni – era cresciuta e si era affermata una realtà che conciliava una visione di cui la politica non aveva colto l’insegnamento. Era la parrocchia di Gaza, dove ił cardinale Pierbattista Pizzaballa aveva radunato le istanze di libertà e di pace al di là degli aggiustamenti che la politica non voleva considerare, gelosa, temendo di venire scavalcata. Ma sono esattamente questi i nodi della realtà che scaturiscono dalla pace di oggi. La legittimazione di Hamas sul piano politico e nazionalistico configura un interlocutore che ancora non sappiamo quanta agibilità e credito troverà presso i propal della trasversalità internazionale. La parrocchia di Gaza avrebbe avuto il ruolo terziario che non gli è stato riconosciuto, soprattutto nell’avergli sottratto la sua visione ideale per sostituirla con la strategia strumentale e momentaneamente efficace della realpolitik. Perché, dopo il tragico 7 ottobre, alla condanna di Hamas sarebbe stato immediatamente possibile l’ostracismo che il mondo Occidentale  gli avrebbe comminato senza appello, imponendogli un termine perentorio alla resa e alla liberazione degli ostaggi, e soltanto dopo scatenare gli attacchi. E non solo da parte israeliana. Alla omicida furia di Hamas, ha fatto seguito la furia risarcitiva di Israele. Battere sulla trategia dell’attesa – cunctator docet – avrebbe preservato il lato umano e  ideale della nuova realtà che si stava delineando. Adesso le difficoltà all’orizzonte sono palesi; ora la ragione ideale dovrebbe avere campo. Ma laddove la supremazia ha il volto della politica dell’opportunismo freddo, possiamo soltanto sperare negli uomini di buona, illuminata e trasversale volontà.