«Niente sarà più come prima». All’indomani di quel fatidico 11 settembre 2001 queste parole fiorirono come un livido presentimento che qualcosa si era spezzato per sempre. Certo c’era, dopo la fine della Guerra fredda, l’umiliazione bruciante per “lo Stato indispensabile” di venir colpito manu militari in casa propria. Ma c’era qualcosa di più, qualcosa di diverso che solo lentamente avrebbe assunto l’esatto profilo. Era andata in pezzi quella certa idea di inviolabilità che ha a che fare non solo con la sicurezza dei confini fisici di una nazione, ma con quella dei suoi confini etici, culturali, ideali, antropologici.
Il terrorismo di marca islamica per la prima volta metteva in crisi quell’idea di inviolabilità, e il crollo delle Torri gemelle – questo il livido presentimento – non poteva trovare risarcimento affrontando il nemico con le armi che si usano nelle guerre convenzionali, perché quella non era una guerra convenzionale, ma uno scontro “identitario”, che avveniva cioè contro una certa concezione dell’uomo e del mondo. Una concezione, peraltro, che ripudia la guerra: «Dio non vuole la guerra in Iraq» fu infatti il grido, inascoltato, di Giovanni Paolo II, non solo perché nessuna guerra è giusta, ma perché proprio la guerra avrebbe segnato il fallimento di una civiltà fiera dei suoi confini etici, culturali, ideali, antropologici.
Erano i confini entro cui era cresciuto il “sogno americano” millimetricamente descritto dalle parole di Bob Kennedy: «Tutte le grandi domande devono essere sollevate da grandi voci, e la voce più grande è la voce del popolo, che parla in prosa, nella pittura o nella poesia o nella musica; che parla nelle case e nelle sale, nelle strade e nelle fattorie, nei trubunali e nei caffè. Che parli quella voce, e la quiete che sentirai sarà la gratitudine dell’umanità». Erano i confini dell’Europa unita come l’avevano sognata Alcide De Gasperi, Altiero Spinelli, Jean Monnet, Robert Schuman, Joseph Bech, Konrad Adenauer, Paul-Henri Spaak: pace, unità, democrazia, solidarietà. Era il sogno di un continente che, dopo secoli di conflitti, potesse finalmente riconoscersi in valori condivisi: la dignità di ogni persona, la libertà di tutti i popoli, la giustizia sociale. Era l’idea di un’Europa che non si limitasse a garantire la sicurezza economica, ma che diventasse laboratorio politico e culturale, luogo di incontro fra tradizioni diverse e terreno fertile per una nuova cittadinanza.
Che fosse non solo mercato, ma anche visione.
Ma, ed è questo il punto, dove sono svaniti quei confini? Giusto un anno prima di quell’11 settembre divenuto spatiacque della stora Zygmunt Bauman aveva pubblicato Liquid Modernity, smascherando quella precarietà strutturale che a poco a poco, tra gli anni ’70 e ’90 (complici la fine del fordismo, la fine delle ideologie, l’avvento del neoliberismo e della globalizzazione e la conseguente crisi delle istituzioni tradizionali), li aveva dissolti. Dunque, al di là della miccia che aveva innescato l’incendio, la situazione geopolitica era cambiata perché le società (occidentali) erano cambiate. La solidità dei confini immateriali, insieme a quelli materiali, si era liquefatta.
Fino a quel paradossale contrappasso della storia che è stata la recente elezione di Zohran Mamdani a sindaco di New York: un musulmano, che ha rivendicato apertamente la propria fede come parte della sua identità politica, alla guida della città divenuta simbolo dello scontro di civiltà e dove, parole sue, «per troppo tempo i musulmani sono stati visti come estranei. Io sono qui per dire che siamo parte della storia di New York».
Contrappasso paradossale nella città delle due Torri («La mia fede non mi separa dagli altri: mi spinge a costruire ponti, non muri»), perché in fondo non fa che manifestare l’insopprimibile nostalgia di una identità perduta, in un mondo che invece, tenuti saldi i nostri confini, sappiamo – scriveva ancora Giovanni Paolo II – «come è, come deve essere, come lo vogliamo, come speriamo che sia, come ce lo auguriamo, come lo vediamo secondo il punto di partenza, secondo le sue radici. E poi come ce lo auguriamo, secondo le stesse radici, perché queste radici sono anche i princìpi, sono le verità, sono i valori di cui l’uomo contemporaneo, il mondo contemporaneo, l’Europa contemporanea si manifestano sempre più bisognosi».