Maria Bellonci e Cesare Cavalleri adesso ci potrebbero apparire come due persone – due intellettuali, gente che muove l’intelletto prima della parola, cioè, operazione questa sempre più disattesa – sole in mezzo alle centinaia di libri, di persone e di sapere, che hanno costellato le loro vite, immaginandole sospese al di sopra de “il letterato illetterato”, colui che ammucchia e non costruisce. Ma se non ci fossero stati questi due testimoni del secondo Novecento e oltre, dal 1956 a oggi, i libri non avrebbero avuto il senso che sono riusciti a dargli codesti interpreti; una coppia a sorpresa, che forse, senza averne fatto palese strategia ma congiunta sebbene non scambievole intenzione, ha portato la letteratura nella letterarietà del vivere liberandola delle sovrastrutture. Maria e Cesare, un incrocio parallelo. Insieme, due-mila-trecento pagine, lei negli Oscar Mondadori con Pubblici segreti, lui con Letture nelle Edizioni Ares. Stefano Pedrocchi ha introdotto Maria, Giuseppe Romano lo ha fatto per Cesare. Lei ha dato fuoco alla Polveriera – sua definizione – del premio Strega; lui alla mitraglia dell’Ares. Anzi, la faretra, com’è stilizzato il topos editoriale.

«I fatti della cultura mescolati ai fatti della vita», scrive Maria a p. 746 dei Segreti. Un Cesare giovanissimo era andato a una serata del premio Strega con Ennio Flaiano, suo amico, a salutare Maria. Le avanguardie scatenate in torrenti teorici, o distillate in ruscelli poetici e narrativi, non contano donne tra le loro file. Se ce ne sono restano in ombra, timidamente, tanto da sparire dietro la prepotente verbalità dei loro compagni. Perfino le giovanissime come Dacia Maraini non portano bandiere. Valenti o no, stanno quiete a scrivere. Così Maria nei Segreti a p. 619. Una questione di stile, perciò di rispetto, che Cesare a p. 565 di Letture ribadisce.

Quando vedo i ragazzi di oggi così uguali fra loro, quasi in gara per imbruttirsi con i loro jeans e i loro piumotti, con il loro linguaggio volgare, penso a che cosa hanno perso col tramonto di un mondo fatto di regole anche apparentemente assurde ma che avevano sempre lo scopo di razionalizzare l’istinto, di porre il rispetto di sé alla base del rispetto per gli altri.

Maria e Cesare hanno – abbiamo – vissuto e vagliato le varie stagioni culturali italiane – impegno e/o disimpegno, trasgressione, passione e ideologia (cfr Pier Paolo Pasolini ) – tentando di non farsene contaminare, e tuttavia districandosene, pescando le perle in mezzo ai granchi, che Cesare attraverso il Caffè che frequentava – la rivista letteraria e satirica di Giambattista Vicari – ha annoverato. Però sceglie. «Ma facciamo una breve passeggiata nel giardino ideologico e linguistico di Edoardo Sanguineti. I raggruppamenti e le classificazioni che egli fa degli autori ci trovano è pienamente consenzienti, nonostante le vistose eccezioni che diremo», così Cesare a p. 1107 di Letture. E Maria, a p. 549 di Segreti:

Capriccio italiano di Edoardo Sanguineti era almeno un’acrobatica mostra d’intelligenza; ma gli altri narratori o si sviano tranquillamente per vie personali divergendo dalle teorie del gruppo (’63, ndr) come l’interessante Franco Lucentini […] oppure denunciano nelle loro pagine un’insufficienza totale, come il giovanissimo Adriano Spatola, […] che in una sventagliata di acute ironie Giancarlo Vigorelli definisce colpito da «una scarlattina in ritardo»: brutta scarlattina davvero.

È nota la controversia – non arrivò a una sfida all’arma bianca come tra Giuseppe Ungaretti e Massimo Bontempelli – tra Cesare e Alberto Bevilacqua, di cui il critico Cavalleri traccia un resoconto in Per vivere meglio (Morcelliana, Brescia 2018). «I personaggi di Bevilacqua sono ectoplasmi materializzati da un medium da strapazzo, basta accendere la luce e si scopre il trucco. Il romanzo di questo prolifico e discontinuo narratore, si caratterizza proprio per il suo alto tasso di irrealtà», così in Letture a p. 103. Maria forse era distratta, o in altre faccende letterarie occupata, perché in quasi mille pagine di Alberto Bevilacqua non v’è traccia. Alberto Bevilacqua nei Segreti non c’è, per qualche misterioso motivo è stato tenuto a distanza, ignorato. Eppure aveva vinto lo Strega col romanzo L’occhio del gatto. A questo punto qualcuno, scettico sul mestiere di Lettore di professione – come Paolo Milano si definiva quando era il critico letterario dell’Espresso – potrebbe domandarsi se è più giusto parlar male di un autore o addirittura ignorarne l’esistenza. Adriano Spatola è citato a proposito del Gruppo ’63, ma non compare nell’indice dei nomi. Se c’è qualcosa che Maria e Cesare hanno in comune, loro così diversi, per generazione e impegni editoriali, è la considerazione verso chi scrive in base a due criteri: di credito per un esordiente di talento e la costante barra puntata sulla letteratura alta.

Di Maria, così scrive Stefano Petrocchi nella prefazione a Pubblici Segreti: «C’è una tensione etica che la colloca invariabilmente nel ruolo della testimone partecipe: di ogni evento misura la distanza più o meno prossima dal suo sentire, anzi è questa distanza il vero oggetto delle sue note di costume». E Giuseppe Romano, concludendo la sua prefazione a Letture di Cesare: «Il testamento di un uomo che riteneva la letteratura esemplare rispetto alla vita, e pertanto la frequentava e la proponeva come bastione di civiltà».

Ma che cosa cercano di dirci Maria Bellonci e Cesare Cavalleri in quelle loro monumentali pagine, è la domanda. La prima è che le risposte stanno nei libri; e ci vuole un bel coraggio, anzi una fede incrollabile a dirlo, in un momento un cui il libro soffre di solitudine. La seconda è una lezione di stile, di eleganza, di ironia e di necessaria intransigenza che insieme disegnano una coerenza e una continuità che hanno un’origine precisa. È il 1938, siamo in pieno Fascismo. Al Quinto Convegno degli scrittori cattolici di San Miniato, Carlo Bo legge il suo saggio incentrato su Letteratura come vita, che poi esce sulla rivista “Il Frontespizio” – Mario Luzi, Alfonso Gatto, Carlo Betocchi e molti altri ne sono i collaboratori – di quell’anno. È questo, in qualche modo che verrà meglio precisato nel dopoguerra, l’antefatto etico nel quale Maria e Cesare hanno individuato l’indefettibile segno direzionale. Di non essere intruppati, di non rispondere a ideologie, di non genuflettersi davanti a un calcolo della politica politicante. Di guardare alla letteratura che parla della Persona. Sia nelle digressioni deliziosamente pindariche di cui Maria si compiace nel raccontare il suo privato – la casa, i fiori, la terrazza, una gita in automobile – sia nella severità di un giudizio di Cesare, perché stroncare un libro vuol dire averlo comunque considerato piuttosto che ignorato, si avverte una afflato di libertà, scopri in Maria e Cesare il piacere che entrambi hanno – lei che per età poteva essere sua madre – di percepire un’intima consapevolezza, l’esistere di una dimensione permanente nella quale trovare sempre consolazione.

Non è un’avventura, ma il distillato di un esercizio coerente e illuminato, un insegnamento perseguito da subito e per sempre. Due libri paralleli, Pubblici segreti e Letture, da tenere sempre a portata di mano, da aprire a caso, ogni tanto. Questa sì, sarà ogni volta una ricca e bella avventura.