A riguardo della Beatitudine in questione la traduzione della Cei del 2008 la propone così: «Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati». La vecchia traduzione del 1974 era invece: «Beati gli afflitti, perché saranno consolati».

La nuova traduzione è più precisa e pone in attivo quel che era reso con il passivo nella traduzione classica, e possiamo apprezzare che la condizione di dolore e afflizione non è una condizione subita, ma, con un verbo stativo, per l’appunto una condizione.

Rifacciamo il punto di come sono fatte queste Beatitudini, ossia di quale sia la loro struttura.

Va ricordato che Gandhi, ascoltando il testo delle Beatitudini, fu fulgorato: lui che era un hindu, scelse la via della non violenza sulla base di questo testo. Fu cambiato profondamente dall’ascolto di questo testo. Questo è l’inizio del Sermone della Montagna, il più lungo discorso di Gesù nei Vangeli. Prende il capitolo 5, 6 e 7 del Vangelo di Matteo. Sale sul monte, si mette seduto e parla. E questa cosa riporta all’attitudine di Mosè, che si sedeva e insegnava la Legge. Il nuovo Mosè, secondo il Vangelo di Matteo, Gesù, dà una nuova legge. Questa prospettiva, che viene ordinariamente proposta, non è del tutto esatta. Gesù, in questo meraviglioso discorso non sta promulgando una norma, ma annuncia il Regno di Dio, che Lui sta inaugurando.

La vita secondo il Regno di Dio ha delle caratteristiche. E comincia con il testo paradossale delle Beatitudini. Va detto che tutto ciò che è cristiano tende al paradossale. Fare del cristianesimo una norma, una cosa razionale, ovvia, intessuta del buonsenso matematico di una legge, è profanare il cristianesimo. Il cristianesimo non è una banalità pedestre, come “la speranza è l’ultima a morire” o “aiutati che Dio t’aiuta” e insulsaggini simili. È molto altro. Al contrario, è l’irruzione di Dio nella vita umana. E quando entra Dio nella vita di una persona, tutto si rovescia, tutto prende un’altra prospettiva.

È bene focalizzare la struttura paradossale delle Beatitudini. «Beati i poveri in spirito perché di essi è il Regno dei Cieli, beati gli afflitti perché saranno consolati, beati i miti perché erediteranno la terra» e via dicendo, «beati quelli che hanno fame e sete della giustizia perché saranno saziati». In realtà, queste sono condizioni, cioè i poveri, gli afflitti, i miti (ossia quelli che non corrispondono alla violenza e quindi perdono le guerre). Oggi pare che se non sei uno che si fa valere che campi a fare? La vita non ha senso se non sei un vincente. Tocca venire a sapere di corsi ecclesiali per ragazzi finalizzati a diventare dei vincenti. Ma a quel punto dove sta la croce?

La croce. Vi sembra che il Crocifisso possa fare il testimonial di un percorso per vincenti? Forse è un testimonial per un percorso per gente che deve imparare a perdere, deve imparare a soffrire, a perdonare, a essere misericordiosa, come diranno appunto le Beatitudini più avanti.

Quel che normalmente resta nell’immaginario dell’ascoltatore medio, cattolico, di queste Beatitudini, anche per la predicazione banale che emettiamo noi preti, è che i poveri in spirito sono beati perché sono poveri. Gli afflitti sono beati perché soffrono. Ma che beatitudine è? Sono afflitto, nel dolore, nel pianto… non sono beato! Ecco, dobbiamo esaminare la struttura tripartita di ogni Beatitudine.

Le Beatitudini sono una formulazione sapienziale. “Beati”, che è makarios in greco, una parola molto interessante perché, secondo alcuni, verrebbe dalla parola charis, che vuol dire grazia. Per P. Chantraine (Dictionnaire Étymologique Langue Grecque: Histoire Des Mots) viene da kairos, che vuol dire “momento, istante opportuno, opportunità”. E allora il significato sarebbe: «Saggi, sapienti, quelli che sanno campare, che sono nel ritmo, colgono l’occasione». Il segreto della vita, come dice il Salmo primo, è dare frutto al proprio tempo, cioè la vita ha un ritmo. Quando ero musicista e suonavo in un quartetto, il problema non era solo fare bene la mia parte, ma farla al momento giusto: se sbagli, ma al momento giusto, curiosamente, il quartetto va avanti e continua a suonare; se invece fai giusto, ma al momento sbagliato, tutto salta e l’esecuzione si ferma; la vita è una questione di ritmi. Tu stai nella vita, devi entrare al momento tuo, parlare, stare zitto, fare una cosa, non farla, è il momento di parlare con tuo figlio, di stare zitto, è il momento di chiedere scusa a tua moglie, oppure di aspettare, è il momento di comprare una cosa, o è il momento di tenerti i soldi in tasca, è il momento di intraprendere, o è il momento di attendere. Tutta la vita è saper rispondere, la vita ti fa tante domande, ti domanda delle cose, tu devi saper rispondere, se dai la risposta sbagliata, tu puoi anche essere una persona meravigliosa, però vivi male, sei infelice.

I beati sono quelli che sanno vivere, cioè sanno stare nel ritmo, nel Kairos della vita, perché la vita è come una danza: parte la disco music degli anni Ottanta, ma entri per fare un walzer mentre sotto ci sono i Duran Duran e tu vuoi andare al passo del walzer; oppure c’è un walzer e tu parti a disco music, c’è una rumba e tu vuoi fare un cha cha cha… Sai ballare al tempo della vita?

Io, per esempio, sono nella fase post malattia, sono debole, l’anno scorso ero debole, quest’anno lo sono molto di più perché mi hanno tolto tutta una parte dell’intestino, per cui ho un sacco di problemi. Sono una bomba a orologeria, non so qual è la prossima malattia che mi arriva, e convivo con la debolezza. E adesso che devo fare con questa debolezza? Come la devo vivere, come la posso vivere, come posso tirare fuori il meglio della vita da questo stato di fragilità, per cui mi è difficile fare tutto? È sempre un enigma se avrò la forza per fare le cose.

Il punto è che vivere vuol dire stare nel ritmo, stare dentro le cose, stare nella propria parte, dare frutto al proprio tempo, sbocciare con il frutto che mi riguarda, che anche gli altri si aspettano da me. Un figlio ha diritto di trovare saggezza in un padre, di trovare tenerezza nella madre, certo, sì, c’è diritto, è giusto che se lo aspetti. Allora tu devi sapere dare quella tenerezza, quell’amore alla vita, quella forza, quel coraggio.

Allora, saggi, sapienti, gente che sa fare la cosa giusta al momento giusto: è chi è questa gente straordinaria? èSono i poveri in spirito, per esempio. E perché? Perché sono poveri in spirito? No, ma «perché di essi è il Regno dei Cieli», cioè: la prima parte è la proclamazione della felicità e della saggezza, la seconda parte è la condizione, la terza parte è il motivo della beatitudine. La beatitudine non è radicata nella condizione, ma questa condizione, per l’appunto, è un’opportunità. Se vuoi avere il Regno dei Cieli, devi far leva sulla tua povertà in spirito, se vuoi conoscere la consolazione di Dio, devi far leva sul tuo pianto, sul tuo dolore.

Il dolore in sé non è una cosa per cui sei beato, infatti sei nel pianto: al contrario, sei beato per la strada dell’essere afflitto, perché conoscerai la consolazione. Perché “sarai consolato”, con un passivo teologico: cioè, non c’è il soggetto dell’azione perché è sotteso che è Dio. Gli ebrei, quando parlano, cercano quanto più possibile di evitare di nominare il nome di Dio, perché, appunto, «non nominare il nome di Dio in vano», per cui si risparmiano le citazioni, lasciano molto spesso le azioni al passivo, perché l’attore non sia detto, ma è sottointeso che è Dio. Infatti è Dio il consolatore.

La consolazione in greco si dice paraclesis: Paraclito è lo Spirito Santo, il consolatore. Che cosa vuol dire, che cos’è una consolazione e che cos’è una paraclesis? Vediamo di capire qual è la condizione di cui parliamo, ricordando che se spesso Dio consola gli afflitti, altrettanto spesso affligge i consolati. Perché? Perché devono iniziare a camminare. Perché? Perché tante volte nella vita la saggezza parte da un evento di destabilizzazione, se non c’è la rottura di un’omeostasi esistenziale, cioè la perdita di un assetto, non ci si muove dal proprio stato esistenziale. Il corpo e la mente tendono alla comodità: uno tende a trovare un posto comodo, un ragionamento, anche triste, però stai lì, stai comodo lì, perché sei abituato, certe volte hai un problema ma non lo vuoi affrontare, perché? Perché ti sei abituato a convivere con quel dolore, con quel problema, e pensi che tanto è meglio così. E allora Dio magari ti deve destabilizzare.

Dice un salmo: bene per me se sono stato umiliato, prima di essere umiliato andavo errando, ma ora osservo la tua parola. Che è proprio il fatto che a un dato momento la vita ti tira un pugno per metterti in movimento e crescere. Io se non avessi avuto a 17 anni un momento di amarezza infinita, di disgusto dell’esistenza fino a pensare di togliermi la vita, non avrei vissuto il viaggio che Dio mi ha permesso di vivere.

Io inizio i miei incontri con i ragazzi raccontando il fatto che a 17 anni mi sembrava che la vita non avesse alcun senso e che non servisse a niente campare, che era meglio liberarsi della vita, allora mi ricordavo dove stava la pistola d’ordinanza di mio padre, che era stato militare e l’aveva nascosta da una parte, mio fratello aveva trovato la pistola che aveva nascosto, perché ai figli non puoi nascondere niente. Scordatevi di nascondere qualcosa, i figli trovano tutto, sono come l’acqua, trovano sempre la strada. Allora a 17 anni non ce la facevo più, andai lì, tirai fuori questo attrezzo, più o meno capì come la dovevo armare e poi una volta che l’avevo fatto e potevo tirare il colpo, mi resi conto che mi sarei fatto molto male. Per morire bisogna soffrire tanto, l’idea solamente di puntarmela, non sapevo dove metterla… Scoprii che non avevo il coraggio, che ero un codardo, e scoprii in quel momento che io non ero uno che voleva morire, ero uno che voleva smettere di soffrire, è un po’ diverso. Essere o non essere, sognare forse, dormire, diceva Shakespeare, dormire, ecco.

Noi viviamo in una società che, erroneamente, è considerata estetica, ma è anestetica: non vogliamo sentire niente, siamo imbottiti di analgesici, tutto quanto è un sistema per non patire, perché non ci arrivi niente, per essere insensibili, per non avere permeabilità al dolore. Il dolore ci fa una paura esagerata e per questo tante dipendenze di oggi, dipendenze da internet, da pornografia… sono tutti analgesici per non soffrire, per intontirsi, per stare in un mondo di vago, stupido piacere. Se vogliamo ulteriormente, diciamo così, fotografare la situazione, noi siamo in un tempo di grande inganno: noi abbiamo scambiato la felicità per il piacere, in primis, e poi per il benessere. Io vorrei ricordare che la felicità è compatibile col dolore: partorisci un bambino e vedrai quanto dolore, e però che felicità, quando c’è sto bimbetto fra le mani, che è tuo figlio, neanche ricordi più il dolore. Quanto è bello che è nato un uomo.

E la felicità può essere compatibile con la fatica: ci siamo fatti un’escursione, siamo arrivati in vetta, una camminata in montagna di qualche genere, quanto è bello, pur essendo affaticati. Ricordo la prima volta che feci una di queste scalate, di queste camminate, ero giovane e c’erano degli amici saggi: partiamo alle 3 del mattino, perché volevamo vedere l’alba, mentre eravamo verso le alture, quando arriviamo su, erano tipo le 10 del mattino, bellissimo, fantastico. Vedo uno che arriva con una camionetta, così, e si mette lì accanto a noi. C’è la strada per arrivare con la camionetta…, ma allora perché stiamo andando a piedi? E questo amico mi disse: perché lui, guarda come fa, arriva con la camionetta, scende e sta un minuto, guarda, e già è annoiato e già se ne torna giù, perché ha visto una fotografia, poteva guardarselo su una cartolina questo, era lo stesso. Invece tu hai la montagna nelle gambe, la montagna è tua, tu non ti dimenticherai mai questo momento, perché è tuo. Ecco, le cose sudate sono le più importanti nella vita.

Mi diceva un viticoltore che il vino più buono è quello che viene dalle vigne patite, cioè quando una vigna sta su un terreno scosceso e difficile da coltivare, il vino è più buono. Una volta mi hanno portato in una cantina, in Valpolicella, a Negrar, dove c’è il Recioto, l’Amarone, queste cose qua: mi fecero vedere le vigne, erano tutte vigne difficili da coltivare. Il vino buono viene dalle vigne patite, interessantissimo.

Le cose belle della vita sono quelle che ti sei sudato. Quando ero ragazzino, giocavo con mio fratello più grande sempre alla guerra; lui diceva: «Attaccano!», e io che ero piccolino, un po’ più imbecille, dicevo: «Ma non ci possiamo parlare con questi? Ci mettiamo d’accordo. Perché attaccano? Facciamo pace!». Io non sapevo, lui ha fatto con la carta tutta una serie di soldatini, i carrarmati, gli aerei, e c’era tutto un esercito, c’era l’epopea della Seconda guerra mondiale e sotto il letto stavano attaccando, bombardando… C’erano tutti i fumetti di guerra, con le battaglie; e io dicevo: «Ma si può stare un po’ più tranquilli?».

L’avventura è una cosa difficile, è una scalata: c’è gente che deve andare in Africa a fare il safari, il ponte di liane, ma c’è bisogno di andare in Africa? Tua moglie è il ponte di liane, è il carattere di tua moglie, veni a capo del carattere di tua moglie, capisci che le passa per la testa e falla felice, è molto più difficile che fare un safari in Africa.

Le cose belle sono quelle difficili, il bello e il faticoso spesso sono compatibili, per cui non è vero che la felicità è incompatibile con la fatica. È incompatibile solo col comfort. Un tempo c’erano gli scemi della guerra, quelli che erano rimasti toccati dalla guerra, ora ci sono gli scemi di pace, cioè quelli che sono stati sempre talmente tanto bene, che non sono capaci di affrontare niente.

Devo introdurre il valore dell’afflizione: l’afflizione serve nella vita, senza afflizione non si diventa adulti. Se tu a tuo figlio rendi tutto facile, è uno che non sa combattere. Bellum, “battaglia”: è un imbelle, in italiano si dice “imbecille”. Perché tuo figlio è un imbecille? Perché gli hai risolto tutti i problemi.

Nella vita ci vogliono le afflizioni, sono benedette, sono molto sane.

Non è facile accettare la propria piccolezza, non è facile accettare i propri limiti, è uno dei temi della psicodinamica più importanti, cioè il rapporto con il limite, il rapporto con la propria fragilità. Un tempo, la mia generazione aveva l’ansia da costrizione, noi reagivamo contro le autorità. I giovani di oggi hanno l’ansia da insufficienza, non si sentono all’altezza della vita e hanno un sacco di menzogne in testa. Io devo smontare queste menzogne, devo parlare di questo, devo parlare a loro di quanto sono belli, di quanto la loro fragilità è una grande cosa, che sono beati proprio perché sono piccoli, poveri.

Maria nel canto del Magnificat dice: «Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente, santo è il suo nome, di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono». Lei ha annunciato che il tema sarà la misericordia di Dio; come sarà la misericordia di Dio? «Ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili, ha ricolmato di bene gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore». Ecco, questa è la misericordia di Dio.

Nel libro del Deuteronomio Dio dice: se tu sarai fedele alla mia alleanza, scoprirai la mia amicizia, io sarò il nemico dei tuoi nemici e l’avversario dei tuoi avversari. Com’è l’amicizia di Dio? Non è il connivente, quello che dice che è vero mentre l’amico racconta una panzana, non è uno che regge il gioco. Ci sono amici che sono conniventi, pacche sulle spalle, momenti di godimento insieme e basta. Invece no, Dio non è l’amicone, ma il nemico dei tuoi nemici e l’avversario dei tuoi avversari. Molto spesso tu sei l’amico dei tuoi nemici e il simpatizzante dei tuoi avversari: lasci nella tua vita le cose che ti fanno male, lasci nella tua vita le cose che ti distruggono, che ti svuotano, che ti depauperano. Per esempio, adesso facciamo degli incontri per sposi e bisogna notare che queste coppie sono amiche dei loro nemici e Dio invece è il nemico dei loro nemici: fraternizzano con ciò che gli fa male, con abitudini distruttive. Anche i ragazzi hanno un processo di auto-sabotaggio sempre in atto, c’è da capire come ci si distrugge, come ci si fa male, pare che è lo sport preferito. Uno sta lì che si svuota da solo perché tiene nella sua vita qualcosa che dovrebbe togliere, dovrebbe liberarsi di una certa cosa e non lo fa; e come fa Dio per salvarti?

Mettiamo che è tutta la vita che sei servile affettivamente perché hai un po’ troppa paura della solitudine: la solitudine non è una maledizione, la solitudine è lo spazio di Dio nella vita delle persone, senza solitudine non puoi parlare con Dio, senza solitudine non prendi contatto col tuo cuore, senza silenzio, senza distacco, non hai identità, non hai verità. Allora certe volte Dio ti mette nella solitudine, perché? Perché ti sta cercando, ma tu odi la solitudine, odi tutto ciò che magari ti crea quella situazione, per cui che cosa fai? Sei servile con gli altri, inizi a fare l’ipocrita, a fare il piacione di qualche genere. Uno che vive adattandosi al contesto senza dire quello che pensa veramente e senza fare quello che pensa veramente, perché ha troppa paura della solitudine e ha per amici, ha come salvatori il successo sociale, l’accoglienza sociale, la plausibilità altrui. E quello è un nemico in realtà, perché è una cosa che depaupera, svuota, spersonalizza. E allora Dio, che è nemico dei tuoi nemici, ti fa fare una figuraccia: mentre tu fai il finto sicuro, ti fa cascare e ti dà un’umiliazione. E tu odi quell’umiliazione, ma è la tua salvezza per scoprire che non muori se gli altri non ti avallano. Puoi vivere cercando i like, cercando di essere gradito, vivere per l’audience. Questo è un grande problema che abbiamo oggi nella Chiesa: abbiamo scambiato l’evangelizzazione con l’audience, cioè evangelizzare vuol dire ottenere audience. Se tutti quanti ci applaudono e dicono che sono d’accordo con noi, non abbiamo evangelizzato, ci siamo semplicemente adeguati. Siamo degli ipocriti farisaici e ci piace essere invitati a ricevere saluti, essere importanti, essere socialmente riconosciuti: quella è l’idolatria. Si chiama vanagloria, quindi abbiamo un livello che in questo momento noi non stiamo evangelizzando nella Chiesa cattolica, stiamo inseguendo la vanagloria, affinché tutti possano essere d’accordo, non possiamo dire una cosa che gli altri non siano d’accordo. Dobbiamo cambiare, mutare forma perché gli altri siano d’accordo con noi.

Io, per esempio, che mi devo occupare dei giovani, non faccio sconti: quando annunzio le cose anche più scabrose, di cui oggi si parla sempre con sotto il disclaimer, io invece parlo chiaro in mezzo agli occhi, senza disclaimer: non mi sembra che Gesù Cristo ne facesse, non mi sembra che Gesù Cristo fosse così, in Luca 7 va a cena a casa di un fariseo e gli dice: «Tu non sai amare», detto in faccia. Costui lo guardava storto perché c’era una donna che gli lavava i piedi, e gli dice: ama poco colui a cui si perdona poco: tu sei un’ipocrita. Non mi sembra che Gesù abbia mai cercato l’audience. Infatti non ha fatto una buona fine, ecco.

E quindi, quando Dio ci vuole bene, rovescia i potenti dai troni e disperde i superbi nei pensieri del loro cuore. Siccome Dio ti ha voluto bene, nella vita hai avuto momentacci, momenti di dolore, di afflizione, perché scoprissi cosa vale e cosa no. Perché scoprissi che cosa conta veramente.

Non so se ricordate, durante la pandemia, c’è stato quel venerdì che papa Francesco ha pregato da solo in piazza San Pietro. E in quella preghiera disse: «Questo è il momento di chiederci: cosa conta veramente?». Era molto importante quella domanda. Non so quanti se la siano fatta. Ma quando hai un momento di tribolazione, di afflizione, ti rendi conto di chi hai intorno, di chi sei tu, di che uomo sei: perché se la vita ti spreme, tu tiri fuori il tuo succo. Spremi un arancio, viene succo d’arancio; spremi un limone, viene succo di limone; spremi un iroso, viene fuori ira; spremi un giusto, viene fuori giustizia; spremi un misericordioso, viene fuori perdono.

Abbiamo spremuto Gesù Cristo, che cosa è venuto fuori? Sapete che Getsemani voleva dire “frantoio” in aramaico, lì dove è stato spremuto. Infatti ha sudato sangue, e ha risposto con l’obbedienza al Padre, con la fiducia nel Padre. Abbiamo spremuto, e cosa è venuto fuori? Sangue e acqua, cioè la vita di Dio per noi, i sacramenti, la nostra possibilità di vivere la vita di Dio stesso.

E qual è la strada per arrivare a questa risposta? Qual è la strada per cui, che ne so, una coppia vede l’amore? Dov’è che vedi l’amore? Quando stai spaparanzato e tua moglie non ti rompe le scatole e ti guardi la Roma, che normalmente perde… questo è l’amore? Che ti permette di diventare uno scemo davanti a Dazn? O l’amore è quando c’è un problema da affrontare? Quand’è che va amata tua moglie? Quando è simpatica, carina? Quando tua moglie è carina, dolce, meravigliosa, cucina bene, non lo so che fa, ecco, tu le vuoi bene. Ti credo, sei stupido se non le volessi bene. Ma quando tua moglie è difficile, quando tira fuori il peggio di sé, qual è il momento di amarla? Qual è il momento dell’amore? Il momento della difficoltà. Qual è il momento in cui voler bene a un figlio? Quando sta in difficoltà, bisogna avere pazienza, dargli fiducia, accoglierlo. Qual è il momento in cui un’amicizia è tale? L’amico si vede nel momento del bisogno, che non è vero, altrimenti tutti i bagni sarebbero salotti… Ecco, il punto è che l’amore si verifica quando c’è il momento limite, quando uno deve dare la vita.

Qual è il punto? Che i problemi fanno crescere. I problemi introducono a una dimensione più adulta. Io ho avuto un ictus e poi sono stato riabilitato alla clinica Santa Lucia, che è un’eccellenza europea nella riabilitazione, nell’affrontare i problemi neurologici come quelli che ho avuto io. Andavo in terapia tutti i giorni, varie ore al giorno, stavo lì in palestra con i fisioterapisti e questi che mi facevano? Per esempio, un esercizio che mi facevano fare è che mi mettevano un cuscino mobile che si chiama medusa su un gradino, un cuscino d’acqua, insicuro, e io dovevo appoggiarmi col piede destro, che era quello forte, sulla medusa. Io stavo così e mi davano le spinte perché cascassi, dovevo imparare a stare in piedi. Oppure mi facevano camminare sul tapis roulant bendato, senza punti di riferimento visivo: cammini, vai a sbattere, caschi per terra. E poi mi hanno messo la sedia dietro e mi dicevano: si sieda, e quando stavo per arrivare alla sedia, la toglievano. «Si rialzi!», come si rialzi? E poi mi facevano fare un esercizio: io dovevo arrivare da qui a lì, e in mezzo c’era un tappetino bitorzoluto, e il fisioterapista mi si metteva davanti; nel frattempo passavano delle operazioni matematiche sullo schermo che dovevo risolvere, sennò non potevo andare avanti. Per cui io camminavo, dovevo vedere, che ne so, 6 per 7, dovevo rispondere; se non rispondevo giusto, si fermava tutto; e intanto quello mi si metteva davanti, non mi faceva vedere. Perché? Chiedevo, e mi dicevano: «Perché lei dovrà attraversare la strada, e quindi dovrà calcolare la macchina che passa, il punto d’arrivo, i possibili inceppi che può trovare lungo la strada…».

Infatti è vero, ci ho messo 6 mesi prima di attraversare la strada, e avevo paura. Mi ricordo il giorno, la prima volta, davanti a San Giovanni in Laterano ho attraversato la strada e ci voleva coraggio. Io dovevo considerare tante cose, perché avevo un multitasking poco funzionante, visto l’ictus.

Quando stai in ospedale, magari soffri, ti vengono a trovare persone, e tu scopri che storia hanno, da come ti parlano. Perché quelli che non hanno mai sofferto, fanno catechesi. Mi ricordo che un prete venne e io stavo lì, che non respiravo dalla nausea, per il dolore che avevo, era il momento più duro dopo l’operazione: due giorni dopo, quando la morfina è finita e inizia invece il rimbalzo dei dolori e fai i conti con i tagli che il corpo porta in sé. E stavo lì, che soffrivo molto, e questo che mi faceva catechesi, e mi era assai molesto. Poi venne un amico, che invece aveva sofferto: venne, mi guardò, capì al volo la situazione, mi prese una mano e si mise a dire un Rosario. Quanto mi consolò, stava lì semplicemente in maniera molto delicata, senza chiedermi di essere all’altezza della situazione, pregava per me, era un amico. Il suo affetto, la sua tenerezza, mi consolarono tanto. Lì scoprii chi ha sostanza, chi ha spessore e chi no.

Gli afflitti conoscono la situazione dell’afflizione e sanno che cosa si vive, non sono certo quelli che sono duri con le persone perché non hanno mai sofferto, esasperano le persone e non hanno la pazienza di aspettare. Pretendono subito un atto di fede, ma no: aspetta, la prima cosa è la calma, dagli il diritto di soffrire, è disperato in questo momento, dagli il tempo di metabolizzare. Bisogna usare pazienza, non forzare subito le soluzioni. Ci sono quelli che devono mentalizzare chi soffre perché devono risolvere tutto, gli interventisti, vogliono raddrizzare le persone. Hai presente quelle persone che ti piluccano quando ci parli, ti tolgono le cose, ti sistemano la giacca? Per contro ci sono invece quelli che hanno capito la sapienza della tribolazione, che sanno che ogni malattia, ogni dolore è un viaggio: tu sai quando parti e non sai dove andrai e quando arriverai, non sai dove ti porterà il dolore che stai vivendo.

Tutti hanno qualche cosa sempre, latentemente, qualche cosa che gli morde l’anima, che toglie il respiro, ecco. Ma quello è un viaggio, non è una cosa da scansare. Differentemente da come pensa questa generazione edonista che deve stare sempre bene e quindi non può mai crescere, non può mai diventare adulta, la saggezza è aspettare che la croce faccia la sua opera. Molto spesso le cose che vivi devono fare in te la loro opera e ti devono portare a qualcosa.

«Beati gli afflitti perché saranno consolati». È interessante che consolare in italiano ha una radice etimologica molto strana. C’è una frase in latino che dice solari famen; che vuol dire? Vuol dire saziare una fame. Allora, questa espressione solari vuol dire “dare compimento”: ogni tribolazione rimanda a una fase più adulta, rimanda a un dopo, a un’altra parte. Quando guardi la croce di Cristo non guardi la storia per intero, quella è una parte della storia, come diceva don Tonino Bello che mise sulla croce “collocazione provvisoria”: si passa per la croce ma si arriva da qualche altra parte, c’è un altro pezzo. Annunziare il pezzo mancante, cioè che la tribolazione è un’opera che ti porterà da qualche parte, ti serve, ti farà crescere, ti farà incontrare il Signore e amare.

Io non seguo Gesù Cristo per essere più sicuro, per stare meglio: perché noi abbiamo la grande minaccia della new age, sempre latente in questo tipo di discorsi, entrare nella Chiesa per avere un po’ di benessere spirituale, sentire una cosa carina. Gli accumulatori seriali di catechesi, di esperienze spirituali, di cose, non crescono mai.

Quando ho avuto il tumore alla vescica è stato terribile, con tutta la chemio che ho dovuto fare dopo e quando a un momento per un malinteso pareva che avessi la recidiva… insomma le cose andavano piuttosto male. Io mi sono dovuto mettere di fronte alla mia morte e mi sono chiesto: «Che cosa resterà di me?». Una cosa sola restava. È stato un momento molto bello per me, capire che mi resta solo la consapevolezza che sono un figlio di Dio: il mio Battesimo andrà oltre la mia morte; tutto può sparire, ma non il fatto che io sono un figlio di Dio, che Dio mi ha voluto bene, che Dio mi ha amato, non mi ha disprezzato come mi disprezzo io, ma mi ha valorizzato, mi ha perdonato, mi ha amato, mi ha accompagnato, mi ha sorretto, ha fatto tante cose con me. E quello è un amore fedele e non mi molla, più importante di tutti i successi o gli insuccessi della vita. È stato molto importante, io ho capito che avevo quel cancro per arrivare a quel punto lì, quel punto ha illuminato molto la mia vita.

Allora, afflitti curiosamente in greco non è passivo, in italiano invece è passivo. «Coloro che sono nel pianto» sembra una condizione e invece è un’attività.

Nell’Apocalisse si parla di Babilonia, la Grande Vedova: io non vedrò lutto, siccome io non mi sono sposata, non vedrò mai il pianto per un uomo che mi è morto. Questa è la città della perdizione, di quelli che non allacciano rapporti per non essere feriti, di quelli che non si innamorano mai perché tanto loro sono così invulnerabili che stanno nel loro assetto e sopravvivono, di quelli che non tengono mai a nessuno perché il dolore di questo qualcuno non gli arrivi al cuore. Fermarsi a pregare per qualcuno, vuol dire lasciarsi arrivare addosso il dolore del mondo, che se ti arriva addosso ti schianta, ti spezza, non ce la fai.

In televisione, quando c’è la pubblicità per le offerte per i bambini che muoiono di fame, cambi il canale, il dolore è molesto.

C’è un dolore santo, senza il quale non si cresce. Si può nascere senza dolore? No, il parto è un evento sanguinoso, rischioso, doloroso, ecco. Certo, la morte è il più grande dei dolori, quella che ti schianterà, eppure: potrai entrare nel Regno dei Cieli senza morire? No, ma questo è esistenziale, non è cronologico, non è biologico, è molto di più: non potrai mai arrivare al nuovo senza perdere il vecchio, senza soffrire la perdita del vecchio, senza tagliarti dalla carne il vecchio, non potrai uscire dal peccato.

Infatti, dice la prima Lettera di Pietro (4, 1): «Chi ha sofferto nel corpo ha rotto con il peccato». Molto spesso la strada di un’evoluzione, di una maturazione, di una completezza, di uscire da un’immaturità per entrare in una condizione adulta è appunto un parto, una perdita, un taglio, un sanguinamento. Ogni volta che il dolore visita la tua vita chiediti dove ti sta portando.

La croce è uno strumento di tortura, se ci pensate. Quando l’ndrangheta vuole torturare qualcuno, lo incapretta: lo legano per le mani, alle caviglie, perché più si divincola, più i nodi si stringono, più la persona si strozza, più si ammazza, normalmente si ammazza da solo. E infatti guardate la croce com’è fatta: stai appiccicato per i polsi e per i piedi a un chiodo; pensate di stare in quella posizione, anche se non fosse un chiodo, tenuti da corde. Staremmo tutti schiacciati, con i polmoni schiacciati, per respirare dovremmo fare leva sul chiodo, per liberare il polmone. Per cui il crocifisso veniva messo contro sé stesso: il desiderio di respirare, che è una cosa insopprimibile, doveva far male; se non si faceva male non sopravviveva, moriva. Per questo alla fine uno molla, lascia perdere, si lascia andare e c’è il rantolo finale dove spira: tira fuori tutto perché si lascia andare, non ce la fa più.

Quindi la croce è uno strumento di tortura, conseguentemente più ti muovi più ti fai male. Il senso è: lascia fare, quando arriva una croce, lasciagli compiere la sua missione, quando arriva nella vita un’afflizione, lasciala fare, fidati di Dio, mettiti nelle mani di Dio, aspetta che faccia quello che deve fare. Perché ti deve tagliare quello che ti deve tagliare, ti deve cesellare quello che ti deve cesellare, ti deve togliere quello che ti deve togliere. È il nemico dei tuoi nemici, l’avversario dei tuoi avversari; non farà pace con le tue menzogne, farà pace con la tua verità, non custodirà le tue illusioni, ti strapperà dolorosamente le tue illusioni e ti consegnerà la tua verità, è magari una verità molto povera, ma è vera. Infatti, meglio una verità amara di una falsità dolce: tutte le falsità dolci la tribolazione te le strappa, te le toglie; lasciatele togliere, perché è il cammino della vita vera. C’è gente che vuole cose autentiche, non vuole tarocchi, non vuole succedanei. Quand’è che tu non sei più un tarocco, un succedaneo di te stesso, quando non sei la brutta copia di te stesso? Quando qualcosa ti matura, quando passi per questo macinino che ti frantuma.

La vita deve far crollare ciò che non è solido, è una grazia quando arriva una botta perché devi scoprire che la casa non è ben fondata, la prova sotto sforzo.

La consolazione di Dio, molto spesso, è la Verità: è una verità che finalmente ti libera dalle tue cretinate. Nella mia esperienza di tribolazioni, essendomi fatto tre carcinomi e un ictus, ne posso parlare con dovizia di sapienza, il dono più grande è che sono crollati un sacco di inganni. Il crash test è fondamentale nella vita, lasciagli fare il suo mestiere, alla tribolazione si arriva, e fatti entrare dentro il dolore delle persone se vuoi imparare ad amare. Chi è che non soffre per gli altri? Chi non entra in relazione, chi si è difeso, chi sta in lockdown perenne, chi non è entrato più in quella zona pericolosa, no?

C’è qualcosa che implica quella pericolosità che è l’altro: l’altro può farti male, l’altro può essere molto molesto, e uno cerca di stare nella comfort zone per non farsi male, per l’appunto, no? Siamo tutti in lockdown esistenziale, dalla pandemia in poi, perché abbiamo scoperto che Zoom poi alla fine funziona, e non ti fai male. Ho visto un ragazzo che si è laureato con la giacca, la cravatta e i pantaloncini da mare, gli ha fatto la foto la moglie quando si è laureato per far vedere che era così. Però di profilo si vedeva questa situazione paradossale. Così costa poco la relazione, noi abbiamo sviluppato le tecniche per fuga, attacco, per non stare male, e quella tecnica può diventare la tua gabbia, può diventare il tuo carcere, la tua vera solitudine. Stai con le persone, ma non ti fai mai far male dalle persone, non ti fai mai vulnerare dalle persone.

Allora, il penthos è una parola molto preziosa per i padri del deserto e per la spiritualità orientale. È il dolore, per esempio il dolore dei propri peccati.

Quindi, «beati quelli che piangono i propri peccati», ma non per essere depressi, non per essere disperati, ma per arrivare all’amore. Perché è per amore che piangi se hai peccato, perché il peccato è una trasgressione rispetto all’amore. Non è la trasgressione di un codice, no. Ciò che è il peccato è ciò che in me è mediocre, ciò che in me è difforme dall’amore. Io non sono il prete che dovrei essere, non sono l’uomo che dovrei essere, né tantomeno il fratello che dovrei essere, non sono stato il figlio che dovevo essere. Non so se tu sei il padre che dovresti essere, non so se questa cosa ti dà dolore. Ma fatti entrare quel dolore nel cuore, lascia che questa cosa ti ferisca, ti faccia male e inizierà un’altra sapienza, un’altra saggezza che si chiama umiltà, piccolezza, misericordia, che si chiama stare davanti all’altro pensando di non essere superiore a nessuno, e stimando anche il bene degli altri, molto oltre la prima percezione superficiale.

Ecco, io vi auguro di farvi entrare questo dolore nel cuore, di non vivere le vostre mediocrità sull’amore così, sciacquandovi la bocca e fregandovene. Certe volte bisogna star male, certe volte deve crollare tutto, devi soffrire per l’amore che non hai dato, dell’amore che non hai amato. Noi non siamo gli uomini che dovremmo essere, non siamo le persone che dovremmo essere: c’è questo trauma tra l’essere e il dover essere che non è moralismo, è percezione sublime, percezione della bellezza. Per questo noi ci mettiamo di fronte a Gesù Cristo. Per capire i nostri peccati non dobbiamo pensare al male, ma al bene: se vuoi che tuo figlio smetta di essere un disordinato, inutile che gli urli che è disordinato, che deve tenere la stanza in ordine, portalo in una casa ordinata, portalo in un posto ordinato e poi riportalo in camera sua, lui metterà subito in ordine, perché gli darà fastidio il disordine.

Come si fa a diventare capace di riconoscere il mediocre dal sublime? Devi assaggiare il sublime, sicché il mediocre ti dia fastidio, sicché il mediocre ti allappi, ti annoi. Bisogna avere percezione del sublime per poter avere dolore per il mediocre, e quello ti porterà all’opera che Dio deve fare in te per mezzo della tua tribolazione, per mezzo di quel dolore, di quel penthos, di quel dolore per il peccato.