Conversazione con Daniele Gigli a proposito di "Finché Dio ci vede" di Emanuel Canevali

A ottant’anni dalla morte, ritorna sulla scena poetica Emanuel Carnevali conosciuto come il “poeta maledetto” dell’immigrazione italiana negli Stati Uniti.
Per l’occasione ho conversato con Daniele Gigli, curatore della raccolta poetica Finché Dio ci vede, una nuova traduzione dei suoi versi migliori e vari inediti recentemente riemersi dagli archivi di Emanuel Carnevali.

Conversazione con Daniele Gigli

Perché Emanuel Carnevali è una figura da riscoprire?

È una figura da riscoprire perché è un bravo poeta. Chi lo conosce, lo conosce per la sua storia di “poeta maledetto”. Questo, come spesso succede quando uno ha una biografia molto affascinante, rischia di schiacciare il valore della sua arte. E io, pur avendolo scoperto – quasi casualmente come tutti – proprio per la sua biografia affascinante una decina di anni fa, ho da subito notato che era un bravo poeta. Così negli anni mi sono cimentato con lui per i miei esercizi di traduzione e, parlandone con Alessandro Rivali, è nata l’idea di questo libro. Poi il caso ha voluto che nel novembre dell’anno scorso, mentre cominciavo a lavorare per aggiornare la bibliografia, ho scoperto che il mese precedente in America era uscita un’opera omnia di Carnevali con 58 inediti. E di quei 58 inediti, ne abbiamo tradotti 25 che in Italia non sono mai stati pubblicati.

Nello scrivere questo libro hai scoperto altri tratti della sua vicenda che non conoscevi?

Sì, per esempio che il suo archivio personale, custodito a Bazzano, in provincia di Bologna, ha una storia particolare. È stato raccolto negli anni Settanta da uno studioso americano venuto apposta in Italia per saperne di più su di lui, e che paradossalmente ha invece finito per far conoscere Emanuel alla sorellastra minore Maria Pia. L’archivio contiene moltissime lettere da cui emerge sia l’umanità sia la disumanità di Carnevali. Un esempio è una lettera scritta quando aveva 16 anni, un anno prima di partire per l’America, indirizzata a suo padre, col quale all’epoca non aveva mai vissuto. I suoi genitori si erano separati quando lui non era ancora nato, nel frattempo la mamma era morta e la zia, con il quale poi aveva continuato a vivere, non poteva più permettersi di tenerlo. Così Carnevali si trova letteralmente a dover implorare il padre di prenderlo a casa sua:

«Non si tratta di cifre: qualunque fosse la tua proposta la zia non la vorrebbe né potrebbe accettare e, d’altra parte, non mi è possibile trovare da sistemarmi qui a Milano con la somma che tu mi offri […]. Tutto considerato mi sembra che anche dal lato economico per te la cosa migliore sia di riprendermi a casa. Per dormire tu sai ch’io mi adatto molto volentieri. Una branda, un materasso messi in qualsiasi posto mi sono più che sufficienti e per il resto ti costerò sempre meno a mantenermi in famiglia che lontano da te. D’altra parte, non ti starò in carico che per due anni ancora: ti chiedo solo di concedermi il tempo sufficiente di prendere una licenza e di mettermi così in grado di guadagnarmi l’esistenza senza dover ricorrere a te. Ora, sprovvisto come sono di titoli, non posso trovare come già ne ho fatto l’esperienza altro impiego che a 30 lire mensili il che, come puoi credere, non è assolutamente bastante nemmeno per le prime necessità della vita.»

 (A Tullio Carnevali, 17 ottobre 1913)

Come viene recepito Carnevali nel 2023? C’è una visione differente?

Secondo me ancora no, e come accennavamo è anche questo uno dei moventi del libro. Dobbiamo considerare che Carnevali muore nel 1942 e in Italia viene completamente dimenticato, come se non fosse mai esistito, anche perché la sua famiglia lo ha volutamente lasciato cadere nell’oblio per tutte le sofferenze che c’erano state. In America, al pari, scompare dalla memoria e diventa a poco a poco un nome fra i tanti nelle antologie di chi pubblicava sulla rivista “Poetry” negli anni Venti. Come raccontavo prima, lo riscopre negli anni Settanta David Stivender, un maestro di coro americano che, innamoratosi di lui, attraversa l’oceano, trova l’unica parente rimasta in vita – la sorellastra Maria Pia, che all’epoca aveva già una settantina di anni e non voleva nemmeno sentire il nome di Emanuel – e la prega di leggerne gli scritti. E qui bisogna ammettere che con grande umiltà morale e intellettuale, Maria Pia – leggendone la biografia incompiuta – ne riconosce il valore, iniziando a tradurre lei stessa le sue poesie, poi pubblicate da Adelphi nel 1978. Da lì, di passaparola in passaparola, Carnevali diviene un “autore di culto”. Quello che sottolineo è che forse, in questo essere “autore di culto”, il rischio è che il “maledettismo” e la sua vita affascinante prevarichino la sua capacità poetica di creare immagini, di cogliere una verità profonda che è insita nella stessa realtà materiale. Ci sono versi in cui dice:

To start a day

Feeling dirty

Is to go to war

Unbelievingly.

 

[Cominciare una giornata

sentendosi sporco

è andare in guerra

senza crederci.]

Il giorno d’estate – Mattino

C’è un amore e odio per la vita proprio perché lui sa che un eden c’è, da qualche parte, e che non è fuori dalla vita. E questa è una caratteristica che lo rende diverso da altri poeti “maledetti”, il fatto che lui non vuole separarsi fiero e sdegnoso dalla società, anzi: Carnevali cerca il riconoscimento del corpo sociale, vuole essere riconosciuto.

Alessia Soldati