Nel fascicolo sulla Giustizia riparativa (seguita da un punto interrogativo) del numero 770 di aprile di Studi cattolici, le 11 domande proposte da Guido Brambilla e Alberto Frigerio nell’articolo “La giustizia riparativa e la ‘casa degli ospiti’” mi hanno spinto a chiedermi come potrei rispondere almeno a qualcuna.
Dev’essere molto chiara la differenza tra l’approccio della cosiddetta giustizia penale dei nostri codici e del sistema a cui siamo abituati e comunemente vista come unica possibile, unica pensabile, e l’approccio indicato con nomi diversi che sottintendono visioni non coincidenti ma che qui, come nel fascicolo, riduciamo per intenderci alla parola “riparativa”. Malgrado le sue antiche e nobili ascendenze, era stata del tutto abbandonata o praticata con iniziative di sensibilità spontanea.
Il primo approccio è “reocentrico”, tutta una costruzione di indagini e processi per decidere se e come punire l’eventuale colpevole. Una sola preoccupazione: che cosa facciamo di chi ha commesso un reato violando la legge? A seconda dei tempi e delle culture si risponde con la ferocia, o con un male proporzionato alla gravità della trasgressione, o con la rieducazione indicata dalla nostra Costituzione come scopo delle pene; gli strumenti utilizzati sono il carcere e/o le misure alternative con i loro regimi e programmi estremamente differenziati.
L’approccio della giustizia riparativa non guarda invece al rapporto tra il reo e la legge, ma alla relazione tra esseri umani. Il reato, oltre a chi lo ha commesso, coinvolge altre persone, alle quali fa male, lascia una traccia, una ferita. Ci si chiede allora: come curare questa ferita, come fare in modo che le conseguenze dolorose siano ridotte al minimo?
Oltre gli stereotipi
Si guarda prima di tutto alla vittima che ha subìto direttamente un’offesa, da lieve a gravissima. Prevale in genere una sua immagine stereotipata, che corrisponde esattamente e solo a quello che le può offrire il processo: di chi cerca soddisfazione sui due piani della massima punizione inflitta al colpevole e del massimo risarcimento economico.
Mi sembra che rinchiuderla in questo standard sia quasi offensivo, come se solo rancore e avidità fossero i suoi connotati. Speculare all’immagine di un reo consapevole di aver infranto la legge, ma indifferente alle emozioni e al dolore di chi il reato l’ha subito.
Ma non è così, o almeno può non essere così e la giustizia riparativa si propone che ognuna delle due parti si accorga dell’umanità dell’altra. È un tentativo d’incontro, ci sarà un mediatore in mezzo e non sappiamo che cosa ne potrà nascere. Non è un obbligo, non è un perdono, non è nemmeno un vantaggio nel sistema penale. È la possibilità di sentirsi più liberi, meno intimamente condizionati dal male che si è prodotto. Capire la propria responsabilità, da un lato, e acquistare una capacità di rielaborazione non bloccata da sentimenti ostili e pregiudizi che prolungano il potere del male, dall’altro.
L’incontro può portare allora verso altre attese, di verità, di riconoscimento che quanto è avvenuto non doveva accadere, a volte addirittura al sostegno reciproco di fronte alla rispettiva sofferenza.
Si possono raccogliere innumerevoli racconti di esperienze e approfondimenti di questa partecipazione della vittima al percorso riparativo. Rimane comunque, inevitabilmente, una piccola frazione di tutti i casi di reato e di dolore provocato. Per disinteresse o rifiuto dell’una e/o dell’altra parte o anche, lo dico in tono volutamente polemico, per inesistenza, ancora in molte situazioni, a quasi tre anni dal decreto che ne dispone l’istituzione, del centro di giustizia riparativa e mediazione che dovrebbe occuparsene.
Succede spesso che, non potendo andare a cercare le singole vittime di ogni episodio, si ricorre a una vittima dello stesso genere di reato, anche se non compiuto dagli autori partecipanti, detta quindi “surrogata”, per comunicare comunque le conseguenze umane dell’offesa compiuta.
Una “ferita sociale”
Resta in pratica un po’ meno frequentato un altro aspetto, sul quale provo a svolgere alcune considerazioni.
Il reato pesa sulla comunità. Come un sasso buttato in acqua e provoca cerchi concentrici. Le persone vicine a chi l’ha subìto ne condividono lo stato d’animo di sofferenza, a volte la difficoltà di come riorganizzare, nel poco o nel tanto, la vita. A un diverso grado di prossimità, persone che abitano o frequentano gli stessi luoghi, che svolgono le stesse attività, che appartengono agli stessi raggruppamenti, hanno ragione di preoccuparsi e temere: «E se capitasse a me?».
Il cerchio si allarga ancora con la diffusione della notizia. E qui purtroppo incontra la politica, pronta ad avventarsi su ogni occasione per raccogliere consensi.
È come se ogni reato portasse conferma o pretesto a uno stato d’animo di paura che, com’è stato ampiamente comprovato, crea una forte adesione a chi si presenta come baluardo di sicurezza. La paura, a sua volta, deve riversarsi su un oggetto, cioè sulla categoria di persone alle quali viene attribuito il genere di reato che spaventa. Vengono immaginate spoglie delle connotazioni complesse che inducono ai comportamenti d’offesa per essere percepite solo come nemici. Di qui il facile passaggio a negarne la pari umanità e dignità, a sentirsi giustificati nell’odio, a chiedere che le sanzioni siano ispirate alla ritorsione, alla vendetta che non riconosce diritti.
In questo modo le ferite di ogni singola offesa, cumulandosi con le altre simili, si dilatano alle dimensioni di una ferita sociale, che non solo mantiene in tanti il malessere di restare legati al rancore, ma promuove scelte politiche che privilegiano gli interventi repressivi a scapito del welfare, della prevenzione, dell’attenzione alle fragilità che rischiano di trasformarsi in comportamenti illegali, della considerazione della pena come percorso rieducativo, questi sì efficaci e non propagandistici strumenti di sicurezza.
L’autore di reato che vorrebbe contribuire alla riparazione ha dunque, oltre al difficile incontro con vittime dirette o surrogate, la possibilità di confrontarsi su quest’altra scala di conseguenze. Non andrà evidentemente a incidere su una percezione diffusa, ma una qualche forma di comunicazione e di reciprocità può essere costruita con una frazione, con un gruppo di destinatari.
Penso ai concittadini più attenti alle vicende locali, ad associazioni, iniziative, parrocchie disponibili a organizzare momenti di ascolto e di conoscenza più approfondita, ai fruitori di eventuali interventi sui mezzi digitali, ai lettori di articoli e in qualche caso perfino di libri, alle comunità scolastiche aperte a temi sensibili e attuali.

Modi di riabilitarsi
Che cosa potrebbe fare chi sta raggiungendo la consapevolezza e la responsabilità del male provocato, per dire: «Io non sono più quello», e questo cambiamento è segno che «non sono mai stato come mi avete immaginato»? Già svolgere un lavoro, dedicarsi a un’attività di servizio, esprimersi in forme artistiche è un messaggio per chi è in grado di coglierlo. Poi c’è la testimonianza, il tentativo di dire la verità del proprio vissuto, che comprende i fatti ma anche la loro origine, le intenzioni e i sentimenti che li hanno accompagnati. E se la comunità scopre un’umanità insospettata, le sue domande e osservazioni costringono l’autore di reato a entrare nelle proprie zone d’ombra, ad accorgersi che la sua verità è ancora parziale e deformata, che l’incontro con le aspettative richiede di affrontare altri interrogativi.
C’è ancora un piano in cui i fatti, che sarebbe meglio non fossero avvenuti, e la fatica del cambiamento personale, acquistano comunque il valore di un’esperienza e il senso di una competenza nella relazione d’aiuto, perché altri non li ripetano, o non abbandonino la fiducia, o sappiano considerare il perdono.
Nel libro La piccola tenda d’azzurro che i prigionieri chiamano cielo (Ares, Milano 2005) racconto di una classe, una terza media, dove in seguito ad alcuni episodi gravi, stavamo svolgendo un percorso sulla legalità, il bullismo, la droga. Ho esposto ai ragazzi la vicenda esemplare di un giovane detenuto che questi problemi li aveva vissuti tutti, ma che si stava aprendo a un ripensamento, e ho chiesto loro di scrivergli personalmente, o in piccoli gruppi, una lettera con domande e osservazioni. La maggior parte riguardavano la sua adolescenza, le droghe e la vita in carcere. Le ho portate al giovane detenuto chiedendogli se se la sentisse di rispondere. Quando sono tornato, mi ha consegnato un pacco di risposte, una per ogni lettera, e mi ha detto che aveva passato la notte a scrivere, che si era sentito carico di responsabilità perché sapeva che i ragazzi avrebbero letto con attenzione e quindi ogni sua parola poteva avere un peso educativo. Si può immaginare poi l’entusiasmo dei ragazzi nel sentirsi presi così seriamente in considerazione.
Viene ancora da interrogarsi sul rapporto tra percorso trattamentale-rieducativo e percorso riparativo. Come già detto, sono del tutto separati e autonomi. Il primo è comunque obbligatorio, in quanto espiazione della pena inflitta, nelle modalità previste dalla legge. Il secondo non può in nessun modo costituire un’alternativa, può solo aggiungersi per volontà della persona interessata.
Anche eventuali prestazioni o risarcimenti cosiddetti riparativi rimangono nel quadro delle conseguenze processuali.
Quando il personale incaricato dell’osservazione e trattamento e il magistrato di sorveglianza devono esprimere valutazioni sulla persona per decisioni su misure da adottare, terranno conto di ogni informazione, comprese quelle sulla partecipazione a incontri e ad altre attività riparatorie. Che non sono dovute e quindi la non adesione non potrà incidere negativamente, mentre le attività svolte potranno essere considerate positivamente o, per qualche motivo, non considerate.
Non c’è interesse alla finzione o all’uso strumentale dell’impegno riparativo, come alcuni insinuano. Ma c’è almeno un inizio autentico di scoperta dell’alterità, la disponibilità a mostrare la propria umanità nel confronto, a volte stupito, con quella di altri, a ritrovare nella condizione di sofferenza un elemento che accomuna, consente e facilita il dialogo.