Se la morte è un’apocalisse, la vita di un uomo è vasta come un universo intero. È l’intuizione dietro The Life of Chuck (La vita di Chuck), film statunitense tratto da un racconto di Stephen King, a sua volta ispirato al poema Canto di me stesso di Walt Whitman. La pellicola, che vede Tom Hiddleston nel ruolo del protagonista, accanto a Mark Hamill e Chiwetel Ejiofor, è finalmente arrivata nelle sale italiane a settembre. Girata grazie a un accordo temporaneo con i sindacati durante gli scioperi che nel 2023 hanno fermato Hollywood, era stata presentata in anteprima mondiale al Toronto International Film Festival nel settembre del 2024, dove si era aggiudicata il People’s Choice Award. Un immenso inno alla vita e al senso dei “finali”.
L’Apocalisse, la danza, la poesia
Atto terzo. Il mondo è in attesa. Contempla una catena di strani eventi che potrebbe rivelarsi l’Apocalisse: la Florida è la nuova Atlantide, l’Egitto di un nuovo Esodo; Internet è morto, e con lui account, identità digitali e maschere, le nuove leggi non scritte della società. Un misterioso annuncio, cieco e sordo a tutto ciò che sta accadendo, con sempre maggiore insistenza campeggia su cartelloni pubblicitari, sfida le trasmissioni ormai interrotte per andare in onda in radio e in televisione e si accende come un ologramma in ogni finestra del quartiere, della città, forse del mondo: «Charles Krantz. 39 splendidi anni. Grazie Chuck!». Solo, nessuno sa chi sia quell’ordinario quarantenne con l’aria da contabile, o di cosa lo si ringrazi. E perché sia così fondamentale, di fronte alla Fine. Uno dopo l’altro, si spengono gli schermi, le luci nelle case e per le strade, stelle e pianeti. Non è l’atto finale del genere umano, né della Terra. È l’atto finale di tutto. Anche del mistero di Chuck, il mago di Oz dell’Apocalisse, o forse solo l’ultimo grande meme.
Atto secondo. Un contabile e la sua ventiquattrore sono diretti a un convegno. Un’artista di strada lo scorge e, senza sapere bene il perché, ne annuncia l’arrivo, o l’entrata in scena, cercando nel ritmo della sua batteria un groove che gli si addica. Pensa che passerà oltre, e invece lo vede fermarsi, poggiare a terra la valigetta e lanciarsi in una danza sfrenata. È un momento quasi onirico, inaspettato anche per il suo protagonista. È una catarsi. Nove mesi dopo, un malato terminale sta per spegnersi in un letto d’ospedale, dopo una lenta agonia che ha imposto la disperazione di una domanda: perché Dio ha creato il mondo? Eppure, quando il ricordo di un ballo inspiegabile riaffiora nella sua mente erosa dal male, un pensiero ancora più inspiegabile lo pervade: forse è proprio quel preciso, assurdo momento la ragione per cui Dio ha creato il mondo.
Atto primo. Un bambino ascolta la maestra leggere in classe Canto di me stesso di Walt Whitman. Tra gli schiamazzi e l’indifferenza generale, un verso gli rimane impresso: «Sono vasto, contengo moltitudini». Un mondo interiore, fatto di persone, luoghi, ricordi. Un universo intero. Che fine hanno fatto i mondi dei suoi genitori, e della sorellina mai nata, dopo l’incidente che sembrava aver posto fine al suo, di mondo? Un giorno, senza che sia accaduto nulla in particolare, la nonna ritroverà la voglia di ballare, e con essa la voglia di vivere, accendendo nel nipote la scintilla della danza. L’unica ombra che ancora aleggia sulle loro vite è “la cupola”, la stanza in cima alle scale che il nonno ha sigillato, credendola teatro di terribili premonizioni. Quando il nipote, ormai ragazzo, varcherà per la prima volta la soglia, vedrà un uomo in fin di vita, in un letto d’ospedale. Il riconoscimento, terribile eppure necessario, poi il ricordo della promessa, carica di speranza nonostante la certezza della Fine, dell’Apocalisse: «Sono vasto, contengo moltitudini».
La metafisica dell’attesa
Tre atti, tre quadri apparentemente autonomi che si inanellano in una sequenza cronologica inversa. Scena dopo scena, legami inaspettati si rivelano, più o meno nascosti, talvolta impossibili, e tuttavia non potrebbero essere percepiti come più veri. Un gioco di specchi che il film rende ancora più labirintico rispetto al racconto da cui è tratto, creando cortocircuiti che accendono nello spettatore l’emozione della consapevolezza che quel senso che si sta affannando a trovare è da cercare altrove, al confine tra il soprannaturale e, forse, addirittura il metafisico.
E il soprannaturale non è certo qualcosa di cui sorprenderci. The Life of Chuck è infatti tratto dall’omonimo racconto del chiaroscurale Stephen King, pubblicato nel 2020 all’interno dell’antologia Se scorre il sangue. Lo sceneggiatore (nonché produttore, regista e montatore) è Mike Flanagan, specializzato nel genere horror e già due volte al lavoro su trasposizioni da opere di King, tra cui il sequel di Shining.
E tra apocalissi e stanze infestate da visioni di morte, saremmo tentati di cercare la soluzione all’enigma nel brivido del paranormale. Un diversivo che sembra quasi mirato a portarci fuori strada, perché questa storia ci conduce ben più in alto della voragine infernale che minaccia di spalancarsi sotto le vite dei protagonisti. Ma neanche la potenza e la ricchezza dello spettro tematico dovrebbero coglierci impreparati, né il rimando a una dimensione altra: nella messe infinita di adattamenti ispirati dalle opere di Stephen King, si annoverano infatti gli indimenticabili Le ali della libertà (1994) e Il miglio verde (1999).
La chiave per accedere al piano metafisico di questa storia è il verso di Whitman, poeta universale che rivela mondi in ognuno di noi. Se ogni uomo, donna o bambino contiene moltitudini, cosa accade quando questo cosmo interiore incontra la morte? Viene l’ora dell’Apocalisse. Della sua apocalisse.
Ma la prospettiva da adottare è quella inversa: se ogni morte genera un’apocalisse, la nostra mente ha in sé la scintilla della creazione, un potere generativo così grande da plasmare mondi talmente vasti da essere dotati di vita propria. Come quello di Chuck, i cui personaggi neppure sanno chi sia quel Charles Krantz che popola quel mondo che credono il loro, e arrivano a pensare che neanche i disastri ambientali causati dall’incuria dell’umanità intera avrebbero potuto far fermare il grande orologio universale. E invece, tutto questo è opera di un uomo. Un uomo che nonostante la visione premonitrice della propria terribile morte e le atroci sofferenze della malattia, riscopre in un ballo il senso della vita.
È una metafisica che non guarda troppo lontano, al di là della vita e della morte, bensì dentro, nel cuore dell’umano, e lo fa a ritroso, a partire dal momento della morte, anche qualora questa preludesse al Nulla. L’unico “oltre” cui si fa cenno è nelle moltitudini degli altri, in cui dopo la morte continuiamo a vivere come ricordi. È una storia di un’universalità rara, per tutti, anche (e forse soprattutto) per chi non crede nell’Oltre, perché riesce a raccontare, al di là di ogni fede o nichilismo, l’immensità della vita. E a darle significato, proprio nella dimensione dell’attesa, una dimensione condivisa da spettatori e personaggi. L’attesa di comprendere, di capire il senso ultimo, di una storia, di un mondo che sta finendo, della vita e della morte. Un’attesa che è insieme la parte più difficile, ma anche, talvolta, la più bella. Un’attesa che è tormento, ma anche grazia, perché è il tempo per riscoprire che spesso sono le piccole cose che danno senso al tutto.
Siamo piccoli, e siamo vasti. Piccoli e vasti come un singolo verso che è stato in grado di generare un racconto, che a sua volta ha dato origine a un lungometraggio. Se un uomo contiene moltitudini, anche le storie che crea contengono moltitudini. E nelle loro apocalissi, riscopriamo la vita.