Il fenomeno migratorio non è certo un’emergenza di questi anni, anche se ora le frequenti enfasi mediatiche, spesso connesse a strumentalizzazioni politiche, danno l’impressione di un’invasione e di una questione di proporzioni inedite, specie in alcune aree del pianeta più coinvolte. Se prevalesse un approccio razionale, e non caricato da demagogia e populismo, si dovrebbe riconoscere che si tratta di un fenomeno fisiologico nella storia umana, talora legato alla curiosità della conoscenza e del cercare fortuna altrove, più spesso a fattori politici (conflitti bellici, rivoluzioni, dittature ecc.) o naturali (catastrofi, siccità ecc.) o economico-sociali (povertà, disagio ed emarginazione). Un fenomeno che può generare, specie se di massa e poco governato, tensioni e respingimenti, con situazioni talora disumane, che evidenziano la necessità di far prevalere – almeno laddove possibile, certo non con regimi autocratici o talebani – procedure legali basate su accordi e forme di collaborazione tra Stati (corridoi, flussi), aldilà del ruolo di organismi internazionali (Onu, Unhcr) per il diritto di asilo dei rifugiati.
Tre questioni prioritarie
A voler circoscrivere qui l’attenzione alle vicende di chi cerca un futuro migliore in Europa al di fuori di percorsi legali, con l’Italia spesso Paese di primo approdo sia nel Mediterraneo che sia Balcani, rilevano soprattutto tre questioni: in primo luogo quella del soccorso per salvare la vita (per lo più in mare) di chi sta migrando, a voler sottacere i muri e i fili spinati che ostacolano via terra; il che richiama sia le norme del diritto internazionale del mare, che obbliga i naviganti a salvare chi è in pericolo portandolo nel porto sicuro più vicino, sia il possibile ruolo benemerito di varie organizzazioni umanitarie, che si fanno carico di soccorrere chi è in difficoltà, salvo diventare bersaglio paradossale di autorità dei Paesi costieri, le quali invece di agevolare ostacolano la loro attività (come le scelte recenti del governo italiano che costringono le Ong a sbarcare in porti assai lontani).
Vi è poi la questione dell’organizzazione dell’accoglienza, sia ai fini della identificazione di chi abbia diritto all’asilo, sia per stabilire una destinazione, con il rischio spesso di forme precarie di detenzione senza una cura dei bisogni primari delle persone. E qui si annida anche il problema della distribuzione in altri Paesi Ue, con le assurde difficoltà che tuttora permangono per piccoli calcoli di alcuni Paesi contrari a soluzioni alternative a quella vigente, che responsabilizza solo il Paese di primo approdo.
Un terzo grave problema riguarda l’ipotesi del rimpatrio forzoso dei migranti, perseguito da alcuni Stati tramite accordi con i Paesi di provenienza o altri disponibili con supporti economici a ospitare migranti di fatto deportati (per esempio gli accordi del Regno Unito con il Ruanda e certe prospettive Ue con la Tunisia).
Il nodo cruciale
La questione di fondo è peraltro quella che riguarda le prospettive di vita di chi intenda migrare stabilmente in una nuova realtà, aspirando a un lavoro e, in definitiva, a diventare un cittadino del nuovo Paese. Prima che un problema di norme e vincoli giuridici, è una questione di possibilità di inserimento e di relazioni in un contesto socioculturale diverso, che richiede non solo conoscenze linguistiche di base, ma anche la disponibilità delle istituzioni locali a favorire il processo di integrazione, senza remore o timori di “sostituzioni etniche”, come talora si è paventato anche da parte di organi di governo italiani. Altrimenti il rischio concreto è quello della emarginazione e dello sfruttamento, che spesso si legano a condizioni di vita disumane, se non di sostanziale schiavitù, con i vari caporalati che gestiscono immigrati di fatto quasi ignoti, adibiti a pesanti lavori in nero e confinati a vivere in baracche senza servizi e alcuna dignità. La fase di primo inserimento è certo quella più delicata, legata alla ricerca di un lavoro legale e di un alloggio dignitoso, all’apprendimento di nozioni linguistiche indispensabili per le relazioni sociali e l’accesso ai servizi pubblici, in una prospettiva che agevoli anche i ricongiungimenti familiari (talora invece ostacolati, come dimostra da ultimo la crisi di governo in Olanda).
Appare essenziale su questo piano sia una politica di apertura all’integrazione e di supporto a un’effettiva interazione tra tutti coloro che convivono in un dato territorio, perfezionando – per quanto riguarda l’Italia – il modello degli Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), realizzati anni addietro con risultati talora positivi in alcuni comuni medio- piccoli, sia un’azione coordinata e sinergica con benemerite organizzazioni sociali dedicate, come Caritas e Fondazione Migrantes, in modo da superare separatezze e pregiudizi e assicurare realmente l’accesso a servizi essenziali, come sanità e istruzione.
Un’impostazione siffatta – che dovrebbe oltretutto favorire il futuro economico e produttivo in realtà dove aumenta la denatalità – si fa certo preferire alla prospettiva della cosiddetta assimilazione francese, fondata su un modello che vorrebbe cambiare l’identità culturale degli immigrati e finisce invece per rafforzarla, radicalizzando contrapposizioni etniche e creando ghetti in cui proliferano le diseguaglianze e le discriminazioni, con i giovani di seconda o terza generazione che addirittura non vogliono essere francesi e alimentano la conflittualità e violenza urbana, come anche di recente si è constatato.
In definitiva, appare assai più sostenibile e percorribile una prospettiva in cui accoglienza e integrazione nelle comunità locali siano in certo modo fisiologiche, così come il meticciato etnico e culturale, che d’altronde ha contrassegnato tante fasi della storia umana, arricchite dall’incontro tra diversi, come si può rilevare anche dalle parole laiche di Francesco in Fratelli tutti. Certo, privilegiando il più possibile procedure e misure legali, che sostengano – e non marginalizzino – anzitutto chi vuol migrare.