Questa mattina 30 dicembre alle ore 11 presso la Basilica di Sant’Ambrogio sono stati celebrati i funerali del nostro direttore Cesare Cavalleri. Pubblichiamo il ricordo che Alessandro Rivali ha letto al termine della funzione.
Riconoscenza: non c’è parola migliore per riassumere la vita di Cesare Cavalleri.
Riconoscenza perché un giorno del lontano 1958 rispose di sì alla sua vocazione, scegliendo la via del celibato apostolico nell’Opus Dei per amare e servire di più chi gli era accanto. Lui stesso, più volte, ricordò l’alba di quella decisione, maturata proprio qui, tra le aule dell’Università Cattolica: “Un amico mi avvicinò a lezione e mi parlò di trasformare il mondo, trasformandomi. Era quello che confusamente desideravo”.
Cesare è stato un maestro. Chi conosceva le sue pagine, sapeva che gli bastavano pochi tratti per inquadrare un libro e il suo autore. Era un critico esigente, molto esigente, e raffinato, fedele alla massima secondo cui “la bellezza è difficile”. La scrittura di Cesare era cristallina, fissava il cuore delle cose, e del resto quella nitidezza era per lui un punto di arrivo. Lo ricordava spesso riferendosi al suo grande amico Eugenio Corti, di cui nell’estate del 1983 volle pubblicare a occhi chiusi il Cavallo rosso.
Cesare è stato un maestro nell’amicizia. Come potrebbe testimoniare ognuno di voi in questa Basilica. Da parte mia, vorrei ricordare il suo carteggio con Arrigo Cavallina.
Quando nel 1984 Cesare vide sui giornali la foto del suo ex alunno sotto processo per aver scelto la lotta armata negli anni di Piombo, gli scrisse:
«Ti ricordi del tuo vecchio (allora giovane) professore della quinta ragioneria? […] Se hai piacere e se puoi farlo, dimmi qualcosa. Potrei mandarti dei libri, scriverti, qualche volta venirti a trovare. In ogni caso, sappi che non sei solo».
Quelle righe riallacciarono un’amicizia e furono determinanti per la conversione e la vita nuova di Cavallina. Quel carteggio è un manifesto delle vette che può toccare un’amicizia.
Cesare è stato un maestro di fede vissuta. Basta sfogliare i suoi editoriali su Studi cattolici, ma la sua fede si palesava anche nelle piccole cose, come l’Angelus puntuale a mezzogiorno o un eterno riposo per un amico appena scomparso, o la capanna del Presepe fatta in ufficio con i fascicoli rilegati della nostra rivista.
Cesare è stato sereno di fronte al “grande salto”, come aveva definito la morte ormai vicina. Ho ripensato tanto in queste ore alla sua ultima intervista su Avvenire, proprio la Vigilia di Natale. Alla domanda: “Che idea si è fatto su “cosa sarà dopo”?”, ha risposto:
“Non ho nessuna idea precisa, posso solo considerare la gloria di Dio e la sua misericordia. Siamo nelle sue mani, perché il Signore ci vuole bene, da sempre. E quindi non c’è da temere nulla, perché ha in serbo per noi le cose più belle che si possano desiderare”.
Gli ultimi mesi in casa editrice sono stati delicati. Cesare era più stanco e più curvo. Ma abbiamo vissuto momenti indimenticabili e pieni di gioia. Come quando è venuto a trovarci in Ares il nostro caro arcivescovo, mons. Mario Delpini, e abbiamo pranzato con le ricette speciali delle nostre redattrici. Quando abbiamo ascoltato insieme un vinile di Nilla Pizzi (anche se la sua preferita è sempre stata l’inarrivabile Callas). Quando gli abbiamo raccontato di aver raggiunto il traguardo dei 70 nuovi libri in un anno o quando ha visto stampato la sua introduzione alla nuova edizione del Fumo nel tempio di Eugenio Corti. Quando ha letto per noi a Pasqua l’amato Libro della Passione che lui stesso aveva tradotto.
Cesare è stato un maestro nello scoprire i giovani talenti. Ma, in generale, era curioso per le novità. Basta osservare gli scaffali del suo ufficio, che spaziano dagli studi su Giobbe alla Sindone, ma anche al Bon Ton, ai Ching e alla storia della Televisione.
Nell’ultimo anno, Cesare aveva molto a cuore le sue “lezioni di poesia” sul suo profilo Facebook. Puntuali, il 13 di ogni mese, il giorno del suo compleanno. I suoi poeti preferiti erano Saint John Perse, Pound e Montale. La sua ultima lezione però è stata per Ungaretti che aveva frequentato a Roma e da cui aveva ricevuto una dedica con l’inconfondibile inchiostro verde del poeta. Era il 30 luglio 1961. E dato che la poesia è stata tanta parte della vita di Cesare, e della mia, vorrei salutarlo proprio con un testo di Ungaretti dal Sentimento del tempo. Perché questo non è un “addio”, ma un “arrivederci”, come dicevi lui: “Nosotros nunca nos diremos adiós”.
“La madre” di Giuseppe Ungaretti
E il cuore quando d’un ultimo battito
avrà fatto cadere il muro d’ombra
per condurmi, Madre, sino al Signore,
come una volta mi darai la mano.
In ginocchio, decisa,
Sarai una statua davanti all’eterno,
come già ti vedeva
quando eri ancora in vita.
Alzerai tremante le vecchie braccia,
come quando spirasti
dicendo: Mio Dio, eccomi.
E solo quando m’avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.
Ricorderai d’avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi un rapido sospiro.