Dio, mia luce, mia salvezza:
di chi avrò paura?
Dio, la fortezza della mia vita:
di chi avrò terrore?
Mi azzannano i malvagi per sbranarmi:
inciampano e cadono nemici e avversari.
Un esercito si accampa contro di me:
il mio cuore non temerà. Anche se mi si leva guerra,
il mio cuore confida.
Ho chiesto a Dio una sola cosa, la sola che cerco:
che io abiti nella casa di Dio tutti i giorni della mia vita:
contempli la bellezza di Dio, lo adori dall’alba nel suo tempio.
Sì, mi dà rifugio nel suo riparo, nel giorno di sventura
mi nasconde nel segreto della sua Tenda
mi solleva al sommo di una rupe.
Ora si rialzi la mia testa
sui nemici tutt’intorno.
Farò sacrifici di vittoria nella sua Tenda,
e voglio cantare a Dio, sì, alte melodie.
Dio, ascolta la mia voce.
Grido: «Volgimi lo sguardo della tua grazia! Rispondimi!».
Il mio cuore ha detto in tuo nome: «Cerca il mio volto!».
Dio, io cerco il tuo volto.
Non nascondermi il tuo volto.
Non scacciare nell’ira il tuo servo.
Tu sei stato il mio aiuto, non lasciarmi,
non abbandonarmi Dio della mia salvezza.
Mio padre e mia madre mi avranno abbandonato
ma Dio mi prenderà tra le sue braccia.
Mostrami Dio la tua strada,
guidami sul cammino sicuro
via dai nemici in agguato.
Non espormi in balìa dei miei avversari:
testimoni falsi sono insorti contro di me
e altri soffiano violenza.
Ah, sono sempre certo, contemplerò la bontà di Dio
nella terra dei vivi.
Resta in attesa di Dio, sicuro, forte,
sii forte nel cuore, e spera in Dio.
Una lettura
Per me è difficile dire quando ho cominciato a leggere i Salmi. Credo molto presto, se penso al bisogno di consolazione, di forza e di rifugio che mi davano ancora prima che diventassi un’adolescente solitaria, insicura, in continui conflitti. Risuonavano nelle liturgie della messa, e in quelle dolorose dei riti funebri, dovevano sollevare le persone amate e chi le aveva amate, a pascoli erbosi perenni: «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla».
Davano sensazione di conforto, nella solitudine: il tu che si poteva rivolgere al Dio del cosmo, e della Genesi: la difesa, il rispecchiamento in un sacro che era quello del mondo vivente, che mi circondava, nella natura. Forse erano già in me, nella bambina piccolissima che celebrava da sola i suoi riti guardando sorgere il sole, nel giardino che apriva il cancello sulla sabbia del mare, vicino a un albero, il macrocarpa piramidale [un tipo di cipresso, ndr] verdissimo, sotto il quale aveva costruito un minuscolo altare fatto di sassi, conchiglie, foglie e fiori.
Leggevo i Salmi nella Bibbia tradotta da Ricciotti, poi nell’edizione Marietti in tre volumi, curata da Garofalo. Ma quando iniziai il liceo a Rimini – noi di Riccione arrivavamo con il filobus o con il treno quasi mezz’ora prima della campanella – cominciò l’abitudine di recitare Prima, nella bella Chiesa di San Bernardino, all’angolo del vicolo dietro a Palazzo Buonadrata, che ospitava il Classico Giulio Cesare:
Mille anni sono come uno ieri ai tuoi occhi, […] come l’erba che germoglia e fiorisce al mattino è falciata alla sera, si secca […] consumiamo i nostri anni come un soffio (Sal 90 (89), 4-9).
Mio era quel ritmo che si univa al sacro dell’infanzia, tra il mare dell’alba e la collina che la guardava, di genti trascorse come senza peso:
Guardate gli uccelli del cielo: non seminano né mietono né raccolgono in granai, eppure il Padre vostro celeste li nutre! Non valete, voi, più di essi? E chi di voi, affannandosi, può aggiungere un cubito solo alla lunghezza della sua vita? E per il vestito, di che vi affannate? Osservate i gigli del campo, come crescono: non lavorano né filano, ma vi dico che neppure Salomone, in tutta la sua gloria, fu mai vestito come uno di essi. Se, dunque, Dio veste così l’erba del campo, che oggi è e domani si butta al forno, quanto di più farà per voi, gente di poca fede? (Mt 6, 26-30).
Due passeri non si vendono forse per un asse? E non uno di essi cade a terra senza il permesso del Padre vostro. Quanto a voi, anche i capelli del vostro capo sono numerati. Non temete, dunque; voi valete ben più di molti passeri. (Mt 10, 29-31).
Non ho studiato l’ebraico, perciò ho cercato di leggere il testo in tutte le forme che potessero aiutarmi. L’ho fatto ascoltandolo in lingua (anche nel canto: Adonai ori, il più imprimente e pop, quello interpretato da Christene Jackman), confrontando le versioni che conoscevo con quelle della Bibbia ebraica interlineare dell’editrice San Paolo (di fr. Stefano Mazzoni in modo interlineare e del cardinale Gianfranco Ravasi in modo letterario), e considerando le antiche traduzioni greca e latina, con i riflessi che gettavano nella memoria delle culture stratificate in eventi, e liturgie. Ho cercato anche altri confronti, come quelli di Gregorio Vivaldelli, o di siti ebraici, che propongono letture in lingue diverse. Ho pensato alla tradizione ebraica che lo recita per la festa di Rosh Hashanà e Kippùr, congedandosi dall’anno, per la festa di Sukkòt (Sukkà è tabernacolo), con la luce che risveglia dal sonno per ritornare a Dio, salvezza che si riferisce al giorno santo dello Yom Kippùr, quando si purificano i torti dell’anno passato attraverso il perdono e l’espiazione. Nel salmo Davide invoca Dio per la salvezza, sottolinea le tre fasi di liberazione. Nella prima Dio illumina il nostro cammino in modo che possiamo fuggire il pericolo, nella seconda ci protegge e rimuove il pericolo, nella terza ci porta in un luogo di rifugio. Ho trovato in un video di Mimma Russo del 6 settembre 2022 una squisita breve illustrazione di un’anonima studiosa ebrea dello Chabad di Milano, che mi ha conquistato per la sua intelligenza precisa, mirata a illuminare dalle loro radici questo salmo che mi risuona potente, ma anche così semplice, come l’acqua pura e scrosciante che fluiva dalla voce di Giovanni Paolo II, papa Wojtyła. Con la plastica aderenza alla realtà del popolo ebraico, la credente spiega come il salmo sia ancora la loro preghiera viva. Sintetizza l’impasse del rischio per cui il Salmo 27 implora la salvezza:
Una terribile malattia, una crisi finanziaria, un grave problema emotivo, queste sono le tre fasi della liberazione che tutti cerchiamo: preoccupazione, tristezza, disperazione associate a una sfida possono essere opprimenti, l’oscurità ci perseguita e immobilizza, bloccando il nostro percorso in modo che non possiamo vedere. Il primo passo verso la guarigione è trovare un raggio di luce o una speranza per illuminare l’oscurità avvolgente, poi abbiamo bisogno di un percorso, una vera soluzione per il nostro problema, in modo che la gravità del pericolo o della difficoltà sia alleviata, e infine anche dopo aver trovato una soluzione dobbiamo imparare a trovare la serenità, uno stato mentale calmo, un luogo del rifugio da cui affrontare le inevitabili lotte mentre l’anno volge al termine e uno nuovo pieno di promesse fa capolino.
Noi che cerchiamo i riflessi metafisici, sofisticati, delle trasposizioni di ogni tipo di salvezza – che pure imploriamo per i pericoli infiniti che ci minacciano, e che pure esistono – restiamo colpiti dalla naturalezza di questa realtà aderente alle cose, e però viva, quotidiana. La lettura ebraica ci riporta alla concretezza. Ed era, è stata sempre, la concretezza del rapporto con quel Dio terribile, che anche il bambino quasi ancora infante cerca rivolgendogli la prima parola, quella più familiare, di figlio a padre/madre, con il tu della confidenza, del rapporto in un insieme di Genesi, se è stato fortunato da non avere subìto, fin dallo sbocciare, il trauma delle catastrofi recidenti le loro vite intrecciate.
Questa concretezza, bisogna dirlo subito, è la cosa più bella, quella che permette al bambino di dare del tu all’universo, di sentire fratelli tutti gli esseri. È la sostanza del Cantico delle creature di san Francesco. La stessa che immedesima con Dio, che fa scrivere il Cantico dei cantici, che spinge alla ricerca, al dialogo amoroso di chi brama Dio come il suo popolo, nell’eros totale, che i mistici di qualsiasi religione hanno conosciuto.
Tutti i Salmi esprimono questo rapporto di fusione con Dio che è proprio del bambino, anche il bambino avventuroso, che combatte con i propri avversari, vuole distruggerli, cerca aiuto e riparo in qualcuno più grande di lui, il potentissimo che lo proteggerà, che lo ospiterà nella sua tenda, che lo porterà in salvo su una roccia inaccessibile, che sterminerà tutti quanti i suoi nemici, al quale, per devozione, sacrificherà tutte le primizie con gioia, esultando con canti di vittoria accesi e inni, e sperando di essere alla fine accolto nella sua casa di vita, dove tutti sono vivi. Da un lato la falsità, l’insidia, lo sbranamento, la distruzione, dall’altro la via retta, come quella del sentiero su cui le cavalle della dea guidano Parmenide, lo strappo nella sollevazione salvifica sull’altezza inaccessibile della rupe, o rocca. C’è un bambino, il puer aeternus, un eroe di Salgari, e un bambino Leopardi, un bambino come siamo stati tutti noi, ma anche bambino Buddha che oltrepassa i desideri di vendetta, e cerca la quiete, la perfetta felicità in quella casa, o tenda luminosa nel deserto, che sarà Gerusalemme dalle mura di cristallo.
Ciò che colpiva sempre, era la profonda vicinanza di molti salmi con il Vangelo. Quel sacro originario di famiglia di Dio, che diventa Vangelo. Lo so che ciò è stato sottolineato da sempre, anche in contrasto con il modo di leggerli in ambito ebraico. Eppure, se si mettessero insieme, tutte queste sostanze, come i lieviti che fanno pani diversi… Anche un ateo potrebbe sottoscriverlo.
I criteri di elaborazione della traduzione proposta
Vengo alla mia traduzione. Ma devo premettere che oggi non credo più come un tempo di sentirmi obbligata alla necessità della scelta esatta o univoca, a una sola traduzione. Bensì alle loro possibilità diverse. A dire il vero l’ho sempre pensato, l’ho scritto in modo più sfumato in altre occasioni, ma ora lo dico chiaramente. A meno che una traduzione non sia frutto di una folgorazione imperiosa e assoluta, propendo per la fluttuanza ragionevole, che consente al lettore di capire un po’ meglio quello che gli sarà offerto, naturalmente se l’edizione ne farà trasparire il caleidoscopio. Perciò proporrò, oltre alla versione ufficiale richiesta, una serie di ipotesi che per me varranno come possibili scelte. La traduzione, ripeto, a meno che non avvenga in una folgorazione, non ubbidisce alla stessa norma della poesia, che sembra escludere ogni variante, come quella che fa Leopardi nei suoi Canti. So che contraddico princìpi annosi e forse una parte di me stessa, ma non temo la fantasmagoria del dubbio, le sue diverse prospettive. Io cerco la verità, anche qui. E la bellezza è qualcosa di variabile e di policromo, perfino nella verità.
Avevo subito abbandonato l’idea di potere avvicinare i suoni: troppo distanti; ma almeno lo spirito della lingua dovevo capirlo meglio. Così, quando ho finito la mia traduzione, ho chiesto consiglio. Perciò l’ho mandata a Enrico Fink, preparato alla scuola rabbinica di Roma, presidente della Comunità ebraica di Firenze, meraviglioso musicista e ora scrittore, che ha ripercorso così profondamente la tragedia sepolta della propria famiglia paterna, da convertirsi all’ebraismo in età adulta. Lui, figlio di madre cattolica e di Guido ebreo tiepido, eccellente professore di anglistica all’Università di Bologna, scampato all’eccidio delle tre notti del 1943 descritte in un racconto di Giorgio Bassani, di cui accompagnò la raccolta. Enrico Fink, che nel romanzo Patrilineare ripercorre tutta la storia del suo ramo proveniente da Berdicev polacco-russa e di lì a Gorizia e infine a Ferrara, dove il nonno aveva sposato una Bassani, mi era parso il più prezioso consigliere, e così si è rivelato: il figlio di quello straordinario filologo e critico, che è stato suo padre, un vero presidio per me, a suo tempo, per la “lettera” di uno dei massimi poeti, William Butler Yeats.

Enrico Fink
Ho fatto alcuni ritocchi alla mia traduzione, proprio perché le osservazioni puntualissime, sensibili da vero musicista dell’anima di Enrico Fink mi hanno convinto che avrei dovuto seguire di più la lettera che avevo cercato di scavalcare, in ellissi. Comprendo che per chi ha osservanza del sacro, anche il più piccolo particolare va ripronunciato come è stato scritto, e non mi distolgo da questo tipo di fedeltà che per me è importante. Tuttavia, non ho rinunciato a qualche ellissi che mi pareva più elegante, rispetto alle formule esplicative letterali, quando l’elisione permetteva comunque di fare capire il pensiero sottostante che veniva omesso. Non è proprio l’ebraico una lingua sintetica, concentrata?
Le domande principali rivolte a Fink riguardano infatti proprio le omissioni dei verbi. Nel primo verso, per esempio: «Sei la mia luce», o solo «mia luce». Possiamo benissimo dirlo in italiano, senza che possa essere preso per un vocativo, ma intendendolo come asseverativo: il latino ce lo ha insegnato, e le forme della lingua italiana medievale, rinascimentale, letteraria e popolare ce lo mostrano, così come ce lo fanno sentire il tono del parlato, della pronuncia, che per esempio si mantiene nel teatro, il quale ha bisogno di sintesi e forza espressiva diretta. Ma per renderlo più chiaro ho messo sempre due punti dopo la premessa dell’eventualità del primo verso affinché si comprendesse che si passava alla conseguenza di un evento ipotetico; i due punti del resto non immettono unicamente a esplicazioni, ma connettono, sia linearmente come sul medesimo piano, sia con salto di conseguenza ed effetto, quindi anche temporale; ce lo fa capire un uso greco, remoto nelle radici sintattiche dell’italiano e pure attraverso la mediazione del latino. Quella stessa nostra lingua duttile ci consente perciò di sottintendere le espressioni dubitative della strofa 10: «Anche se… mia madre e mio padre mi hanno abbandonato», o della strofa 13 «ah se non avessi creduto di vedere», oppure «sono certo», o ancora «non ho forse la certezza?». Permette di scorciare anche quelle ottative che esprimono desiderio in tutte le forme della possibilità e non, pure nella condizionalità, e di concentrare l’augurio in tutte le forme, anche imperative, fino a rievocare formule scaramantiche e magiche.
Peccato che talvolta invece non si possano ricalcare bellissime parole potenti che sono in sé costrutti sonori e mentali, come il finale chazak: vuole dire «forza» ma anche «sii forte». Sentirlo pronunciare come un colpo secco, uno sparo, fa pensare più a una parola sola, un «forza» esortativo. «Sii forte» diluisce il grido, lo stempera. Ma «forza» e basta, ormai suona come un grido da stadio. In quei versi che incitano alla forza e alla fiducia sono contemplati anche due elementi di conforto che ho voluto sottolineare: l’attesa e la speranza. L’attesa è quella escatologica, che san Paolo riprende, nella quale Giovanni Scoto fonda la salvezza di tutto il creato nei suoi libri Sulle nature dell’universo, che Simone Weil mette per sé a condizione: en hypomoné: sulla soglia en attente de Dieu; la speranza è quella che si nega per sé Cristina Campo, ma è comunque una delle tre virtù teologali.
In conclusione, se ho mantenuto le mie ellissi, pur accogliendo l’osservazione di Fink per pareggiare i primi versi, senza riportare alla lettera i passi che mi aveva segnalato (e che io stessa avevo tradotto pari pari nelle prime versioni); il suo ribattere la letteralità, spiegando più a fondo le ragioni, mi ha indotto a rimeditare l’importanza di alcune allocuzioni entrate nell’uso metaforico e poi convenzionale, che però all’origine sono concetti corrispondenti a rapporti e interlocuzioni reali. E da quelle origini svilupperanno in seguito personificazioni, attributi divini, princìpi teologici: è il caso di quella richiesta di misericordia e di grazia, che fa pensare alla gentilezza di Dio, che ci mette in relazione con le Grazie greche, con la Grazia virtù teologale e appartiene alle preghiere (mi viene in mente un’implorazione di Keats identica, normale nel XIX secolo, ma oggi così difficile da ripetere: «I cry your mercy-pity-love!-aye, love! / Merciful love that tantalizes not»). O di quella celebrazione che inizia dal mattino, e alla durata dell’adorazione per tutta la notte. O di quel modo di celebrare e di lodare, proprio dell’inno di lode, di vittoria sulle tenebre, di gioia, che le Muse prescrivono a Esiodo nella Teogonia, ed è riconoscimento dei nomi e del nome: il nome così sacro per gli ebrei da non poter essere pronunciato se non con il sostituto Adonai, Signore. Perciò, poiché si tratta di una vera e propria “elevazione”, avevo tradotto con «canti alti», che sostituiva gli inni. Ma poi Fink ha distinto tra parola-voce e melodia, e allora, piuttosto che «canti alti» ho azzardato «alte melodie». Non era stato apprezzato forse come uno dei massimi poeti bizantini Romano il Melode, che era di origine ebraica?
Il commento di Fink sulla base del testo originale ebraico
Questo il commento e il consiglio interlocutorio di Enrico Fink per la traduzione che gli avevo inviato:
Intanto un saluto. E come diciamo in ebraico, kol hakavod, ovvero congratulazioni per l’ottimo
lavoro.
Provo a rispondere nello specifico. I dubbi sulle “omissioni” del verbo sono derivanti dal fatto che in ebraico la forma presente del verbo essere non si usa (anzi, a essere precisi non esiste nemmeno). Per cui non si dice «io sono stanco», ma «io stanco»; i verbi diventano, al presente, sostanzialmente degli aggettivi, e infatti si declinano, non si coniugano. Per esempio, non si dice «io mangio» ma «io (sono) mangiante». Questa struttura (solo al presente!) naturalmente può ingenerare ambiguità. Nel caso del Salmo 27, si comincia in effetti letteralmente con «Dio mia luce mia salvezza» che potrebbe intendersi così come ha tradotto, come un vocativo, ma anche «Dio è la mia luce e la mia salvezza». Io raccomanderei coerenza fra primo e secondo emistichio, che sono in forma di assoluto parallelismo; ed essendo il secondo abbastanza chiaramente «Dio è la fortezza della mia vita» come ha scritto, dato che funziona diciamo da esplicativo nei confronti del seguito «di chi avrò paura?», io suggerirei di usare «Dio è la mia luce» ecc. anche all’inizio.
Andando avanti, verso 2:
Mi azzannano i malvagi per sbranarmi:
inciampano e cadono nemici e avversari.
Qui il senso va benissimo, non so quanto conti, ma solo per chiarezza letteralmente il verso dice: «Quando mi azzannano» (o ancora più letteralmente «nell’azzannarmi da parte di») «i malvagi per sbranarmi, i miei nemici e avversari, sono loro (sottinteso e non io) che inciampano e cadono».
Un esercito si accampa contro di me:
il mio cuore non temerà. Anche se mi si leva guerra,
il mio cuore confida.
Anche qui, mi scuso se dico cose scontate e la traduzione va benissimo ed è sicuramente più elegante, ma solo per sicurezza dico che letteralmente sarebbe: «Se un esercito ecc., il mio cuore non temerà».
Ho chiesto a Dio una sola cosa, la sola che cerco:
che io abiti nella casa di Dio tutti i giorni della mia vita:
contempli la bellezza di Dio, lo adori nel suo tempio.
Qui l’unica cosa da dire è, come avrà visto, che c’è grande incertezza fra i traduttori (almeno quelli del mondo ebraico) sul senso di levaqer che lei traduce con «adorare». La radice ha con sé il senso del richiedere, interrogare, ma, dato che è la stessa radice di boqer, «mattina», molti maestri del pensiero ebraico traducono con «partecipare alle funzioni ogni giorno» o qualcosa del genere. Naturalmente anche adorare si collega a tutto ciò…
Sì, mi dà rifugio nel suo riparo, nel giorno di sventura
mi nasconde nel segreto della sua Tenda
mi solleva nell’alto di una rupe.
Ora si rialzi la mia testa
sui nemici tutt’intorno.
Farò sacrifici di vittoria nella sua tenda,
e voglio cantare a Dio, sì, canti alti.
Un solo dubbio su «sì, canti alti». L’originale è «canterò» ripetuto con due verbi sostanzialmente sinonimi, il primo legato alla radice shir di “canto” e il secondo a zemer che anche quello si traduce spesso con “canto”. Non so se da qualche parte ha trovato una connessione con «alto» in zemer, ma ovviamente è un’interpretazione possibile. Io forse avrei cercato qualcosa che riporti il legame forse più forte fra shir e la parola, la voce, mentre zemer forse è più la melodia… ma mi rendo conto della difficoltà. Qualcuno ho visto usa «innalzare canti e salmi», altri «cantare e intonare un canto». Non so.
Dio, ascolta la mia voce.
Grido: «Volgimi lo sguardo! Rispondimi!».
Le ultime due parole sono vechaneni va’aneni; mentre aneni è senz’altro «rispondimi», chaneni ha una radice legata espressamente alla dolcezza, alla misericordia, al mostrare grazia o favore.
Non nascondermi il tuo volto.
Non scacciare nell’ira il tuo servo.
Tu sei stato il mio aiuto, non lasciarmi,
non abbandonarmi Dio della mia salvezza.
Unico mio dubbio qui è che questi, qui espressi come due versi, sono due emistichi nell’originale, e che «Tu sei stato il mio aiuto» appartiene al primo, non al secondo.
Mio padre e mia madre mi avranno abbandonato
ma Dio mi prenderà tra le sue braccia.
Il verso è introdotto dalla particella ki che può significare tante cose in effetti, per esempio “quando” o “se”, ma non la tralascerei. A me pare che la dubitativa sia la scelta migliore: «Se anche…» o qualcosa del genere, però capisco anche qui la difficoltà.
Mostrami Dio la tua strada,
guidami sul cammino sicuro
via dai nemici in agguato.
Non espormi in balìa dei miei avversari:
testimoni falsi sono insorti contro di me
che soffiano violenza.
Va benissimo ovviamente ma letteralmente sarebbe «sono insorti contro di me testimoni falsi e (persone che) soffiano violenza».
Ah, sono sempre certo, contemplerò la bontà di Dio
nella terra dei viventi.
Resta in attesa di Dio, sicuro, forte,
sii forte nel cuore, e spera in Dio.
Eh sì, questo è complicato e non chiaro. Sono due versi, ovviamente; il primo piuttosto chiaramente dice «Se non avessi avuto la certezza di contemplare la bontà di Dio nella terra dei viventi» e non si capisce a che cosa si riferisca, perché non chiude la clausola. Qualcuno la fa riferire a prima (sarei stato sopraffatto dai falsi testimoni ecc.); altri lasciano la clausola aperta. Ogni scelta è legittima.
Il secondo letteralmente comunque sarebbe: «Resta in attesa di Dio, sicuro e coraggioso il tuo cuore; resta in attesa di Dio».
Ecco qua. Spero di essere stato d’aiuto e non troppo pedante!
Un saluto
Enrico Fink
A Fink avevo chiesto anche una precisazione sulle divisioni dei versi, le lunghezze, il ritmo, e la riporto qui di seguito:
Sulla lunghezza dei versi, gli emistichi ecc., io mi baso per la divisione sui te’amim, i segni aggiuntivi a quelli vocalici posti sopra e sotto il testo ebraico, anche quelli come i segni vocalici inseriti nel testo dalle correzioni masoretiche intorno al IX secolo; e che dividono i versi in maniera chiara. Non sempre la versione cristiana li ha rispettati – famoso è l’esempio della «vox clamantis in deserto», in cui l’evangelista traduce da Isaia un’espressione in maniera non consona a quella che è portata dalla tradizione ebraica, nella quale si divide «qol qoré / bamidbar panu derekh», ovvero non: «Una voce chiama nel deserto: preparate una strada» ma «una voce chiama: nel deserto preparate una strada» ecc., riferendosi alla necessità di riaprire strade mangiate dalla sabbia nelle città al confine col deserto.
Poi naturalmente la poesia ebraica di epoca biblica è totalmente non metrica, ma risponde a criteri di parallelismo, rafforzamento o chiasmo, a volte creando disparità quantitative molto evidenti. Non so se conosce un testo che amo molto, di Robert Alter, The Art of Biblical Poetry, un saggio splendido per me sotto mille punti di vista (insieme al suo gemello The art of biblical narrative). Io quel poco che so l’ho imparato lì!