Seguendo il racconto biblico di Giuseppe, la storia di fra’ Cristoforo nei Promessi sposi, di Guareschi e di Wiesenthal, Leonardo Allodi conduce il lettore dall’esperienza del perdono (ricevuto, dato o negato) al concetto filosofico di “perdono”, passando per Scheler e Guardini e approdando all’antropologia del perdono di Spaemann, fondata sull’ontologia della persona. Leonardo Allodi è professore associato di Sociologia dei processi culturali all’Università di Bologna. Insegna anche all’Accademia Militare di Modena. Ha fondato e dirige la collana “Spaemanniana” presso l’Editore Cantagalli in  Siena.

Ciò che trasforma la condizione umana da tragedia in speranza – afferma H. Arendt – è la possibilità del perdono.1

Secondo il classicista americano David Konstan (1940-2024), la storia di Giuseppe e i suoi fratelli costituisce il primo momento registrato nella storia in cui un essere umano perdona un altro2.

Un momento, questo, che ha cambiato la storia dell’umanità, come ha osservato anche Jonathan Sacks: 

L’umanità è cambiata il giorno in cui Giuseppe ha perdonato i suoi fratelli. Quando perdoniamo e siamo degni di essere perdonati, non siamo più prigionieri del nostro passato. La vita morale è quella che fa spazio al perdono3.

Nei quattordici capitoli finali del libro della Genesi (37-50), si snoda la storia della discendenza di Giacobbe, la storia di Giuseppe e i suoi fratelli. Dopo aver messo alla prova i propri fratelli, quando comprese che essi, alla fine, riconoscevano la propria colpa e di meritare la punizione, Giuseppe – i fratelli non sospettavano che li aveva compresi – «si allontanò e pianse» (Gen 42, 24). Un altro momento centrale della storia è affidato alle parole di Giacobbe: «Direte a Giuseppe: “Perdona il delitto dei tuoi fratelli e il loro peccato, perché ti hanno fatto del male! Perdona dunque il delitto dei servi del Dio di tuo padre!”. Allora Giuseppe, di nuovo, pianse quando gli si parlò così» (Gen 50, 17). Nel suo commento, san Cesario di Arles ha lasciato scritto: «Baciava ognuno di loro e piangeva per tutti, affinché l’effusione delle sue lacrime colmasse le montagne dei timori, e con le lacrime dell’amore lavava l’odio dei fratelli»4.

Il “pane del perdono”

Vi è un’altra storia, questa volta letteraria e molto più vicina a noi, e che dobbiamo al «poeta che è andato più vicino all’uomo e al suo cuore»5: la storia di Ludovico, poi fra’ Cristoforo, narrata nel capitolo IV dei Promessi sposi. Lodovico, dopo lo scontro e l’uccisione, si rifugia in un convento dove comincia una vita di espiazione e di servizio. Dona tutto il suo patrimonio alla famiglia di Cristoforo. Ma vuole chiedere perdono al fratello dell’ucciso per levargli, «se Dio benedice la mia intenzione, il rancore dall’animo». Di fronte al perdono concesso «il volto del frate si aprì a una gioia riconoscente, sotto la quale traspariva però ancora un’umile e profonda compunzione del male a cui la remissione degli uomini non poteva riparare»6
. Vinto dalla contrizione sincera di fra’ Cristoforo, il gentiluomo fratello dell’ucciso, trasportato dalla commozione generale, «gli gettò le braccia al collo, e gli diede e ne ricevette il bacio della pace». Al momento di congedarsi fra’ Cristoforo chiede una cosa sola: «Io sto per mettermi in viaggio: si degni di farmi portare un pane, perché io possa dire d’aver goduto la sua carità, d’aver mangiato il suo pane, e avuto un segno del suo perdono»7. E poi quella scena, indelebile, che ci rimane nel cuore, più di qualsiasi trattato teologico o filosofico sul perdono:

Il padre Cristoforo camminava, con una consolazione che non aveva mai più provata, dopo quel giorno terribile, ad espiare il quale tutta la sua vita doveva essere consacrata… Fermandosi, all’ora della refezione, presso un benefattore, mangiò, con una specie di voluttà, del pane del perdono: ma ne serbò un pezzo, e lo ripose nella sporta, per tenerlo, come un ricordo perpetuo8.

Ci sono poi due esperienze parallele, che più avanti richiameremo, quelle di Giovannino Guareschi e di Simon Wiesenthal, due storie unite, se non altro, da una comune drammatica esperienza: i campi di concentramento tedeschi dell’ultima guerra mondiale, che risultano assai utili per chiarire la mia tesi: e cioè che, sulla scia di un concetto che è il risultato della storia di un lungo cammino che ci porta nel cuore della teologia cristiana, e cioè il concetto di persona, sia possibile parlare di un’“antropologia del perdono”9, o, addirittura, come fa Robert Spaemann, di un’“ontologia del perdono”.

La natura umana è una natura teleologicamente orientata, chiamata a destarsi e a scoprire in sé quell’impronta che più essenzialmente la costituisce, anche se non immediatamente a disposizione della nostra coscienza. Per questo ha ragione J.H. Newman quando osserva:

Noi sappiamo che quanto più un oggetto ci è vicino, tanto meno possiamo contemplarlo e comprenderlo. Cristo ci è venuto così vicino nella Chiesa che (se posso esprimermi così) non possiamo né fissarlo né discernerlo… I nostri volti sono rivolti altrove; noi non lo vediamo e conosciamo la sua presenza solo per fede, perché egli è al di sopra di noi e dentro di noi10.

Dire che l’essere umano è persona, significa riconoscere che ciascuno di noi non è semplicemente una natura ma piuttosto “possiede una natura”, una “distanza interna” che consente sempre di andare oltre la pura fatticità di quel che si è e quindi, ad esempio, di oggettivare i propri limiti. Chi ha indagato il significato della coscienza nella vita dell’uomo è stato, appunto, fra gli altri, il card. John Henry Newman, per il quale nella coscienza regna una sorta di «istinto dello spirito», in essa è presente un ambito nascosto, un regno, nel quale agisce un «legislatore supremo, un giudice santo, giusto, potente, onniveggente e premiatore»11. Quando intendo “antropologia del perdono”, mi riferisco esattamente a questo dato strutturale dell’essere umano. Il perdono è una di queste forme del destarsi dello strato più profondo della coscienza umana, è il segno della persona, esattamente come la promessa, la capacità di promettere: il perdono, dirà Spaemann, fonda l’indipendenza dell’identità dalla sua sottomissione alla fatticità, e per questo «è un atto eminentemente crea­tivo»12. Compito dell’uomo è sempre un destarsi13. Destarsi a che cosa? Destarsi significa scoprire realmente in noi stessi quello che, con le sue famose parole «interior intimo meo et superior summo meo», Agostino suggerisce (Confessiones, III, 6, 11).

Il perdono è la via che ci conduce a questa scoperta, una via dolorosa che ci pone davanti a un bivio, a una scelta, a un’alternativa. Come dice ancora Spaemann, anche nel perdono si presenta all’uomo un’alternativa: la prigione in sé stesso o la Croce: «Dalla prigionia in sé stesso, dalla curvatio in se ipsum, come si dice nella tradizione agostiniana, egli può uscire soltanto inchiodandosi alla croce della realtà»14. Il perdono configura sempre un nuovo inizio, e, potremmo dire, “una nuova creazione”. Il cristianesimo è, in questo senso, davvero la religione convinta che sia possibile un nuovo inizio, in ogni momento. Questo “nuovo inizio, in ogni momento” non riguarda soltanto la vita della Chiesa o quella più in generale della società, o la dinamica storica e le grandi istituzioni di civiltà influenzate da secoli dalla rivoluzione cristiana, o addirittura nate da essa, ma ancor più e in primo luogo la nostra vita più personale. Un nuovo inizio che in ogni momento sembra affidato a ciascuno di noi. Nel perdono, sia chi perdona sia chi è perdonato può ritrovare sé stesso e sperimentare la propria natura più intima e vera. Per questo ha ragione Tertulliano a sostenere che l’anima è per sé stessa cristiana. E molti secoli dopo i padri pre-niceni, Bernardo di Chiaravalle scriverà che il perdono e il pentimento sono la legge del respiro tanto dell’anima individuale quanto della “grande anima dell’umanità storica”. Recentemente, Riccardo Di Segni, ha ricordato che il perdono «è essenziale per la sopravvivenza del mondo. L’errore è parte della natura umana e se vi dovesse esistere solo giustizia non vi sarebbe sopravvivenza per gli esseri umani»15.

Certamente, il tema del perdono resta un tema difficile da affrontare, quando si voglia realmente giungere al nucleo del fenomeno: al «nucleo vero e proprio dell’idea di perdono arriviamo solo quando riflettiamo che, nell’uomo, si tratta di una persona», come dice Guardini16.

Il perdono, che ci sorprende sempre impreparati, si presenta come una grande impresa, una decisione morale totalizzante, un’“agonia” nella quale l’intera nostra persona è coinvolta; il perdonare e anche l’essere perdonati ci portano davvero all’estremo delle nostre possibilità. In pari tempo, il perdono è sempre anche esposto a un pericolo: la sua banalizzazione. Voglio di nuovo citare Riccardo Di Segni, e quello che osserva circa la “retorica del perdono”, oggi dilagante:

La vera pace tra esseri umani singoli o tra collettività, istituzioni, Stati, è un processo graduale, che richiede sospensione delle ostilità, riparazione del torto, accordi di buon vicinato, garanzie di non aggressione, stabilimento di comunicazioni e riconoscimento dell’altrui umanità. Da questo può scaturire la convinzione di aver sbagliato prima, e volontà di non continuare a sbagliare dopo. È la consapevolezza dell’errore procurato che fa breccia nel cuore dell’offeso. Ci vuole uno sforzo eroico da entrambe le parti; un antico detto rabbinico insegna: «Chi è il vero eroe? Colui che fa del suo nemico il suo amico». Ma il nemico qualche sforzo lo deve fare anche lui17

La dinamica del perdono

Dietro all’esperienza del perdono si trova una dinamica complessa e sottile, il frutto di un travaglio, come ha intuito, con la consueta profondità, M. Scheler:

Il “perdonare” è un atto positivo di libero sacrificio del valore positivo della punizione: atto quindi che presuppone l’impulso di vendetta e non consiste certo nella mancanza pura e semplice di quest’ultima. Parimenti il “sopportare” per esempio una offesa non è – come ritiene Nietzsche – un subire meramente passivo, un lasciare succedere, bensì una precisa condotta positiva della persona nei confronti del suo impulso a rifiutare l’offesa: un ripudio positivo di tale impulso18.

Perdono e giustizia, perdono e punizione, perdono ed espiazione non sono termini che si escludono a vicenda, come hanno perfettamente compreso le analisi fenomenologiche di M. Scheler, di P. Ricoeur, dello stesso R. Spaemann.

Tuttavia, pensare oggi un’“antropologia del perdono” significa fare i conti anche con una costellazione storico-sociologica che spesso ne deforma il significato.

M. Scheler ha parlato di désordre du coeur, R. Guardini di “slealtà moderna”, T.S. Eliot della “Terra desolata” di uomini vuoti e impagliati, auto-indulgenti, Robert Musil di “uomo senza qualità”, P.L. Berger di The Homeless Mind, e anche (insieme a T. Luckmann) di “smarrimento dell’uomo moderno”, e di ère du vide ha parlato Lipovetsky. A conclusioni simili giungono le analisi di C. Lasch sulla “cultura del narcisismo”. L’elenco potrebbe essere allungato. Queste molteplici “diagnosi” potrebbero essere riunite nella seguente sintesi: quello che si determina oggi è un corto circuito fra i valori della modernità (il valore dell’individuo, la sua libertà), una certa concezione di pluralismo e un’endemica crisi di senso (che impoverisce l’individuo, lo rende più fragile, indeterminato). La nozione di pluralismo alla base di questa crisi di senso è quella che si può definire “pluralismo moderno”: un pluralismo che ponendo sé stesso come valore sovraordinato implica una relativizzazione di tutti i sistemi di valore. Quando Max Scheler, sulla scia di Agostino e di Pascal, parla di désordre du coeur è questo che intende. Una società ormai senza più valori superiori di riferimento, è una società “senza padri”. E una “società senza padri” (qualcuno un po’ attardato, fermo a qualche secolo fa, non riesce a comprendere che la società in cui viviamo non è più, e da molto tempo, una società “patriarcale” ma esattamente il suo contrario: una società “senza padri”) genera una diffusa sofferenza psichica. «Che cosa rende profondamente diverso colui che ha ricevuto quel segno, che in lui si è impresso, rispetto al figlio cui quest’esperienza è mancata? La ferita, il colpo, prodotto dalla perdita. Il padre ti conduce alla ferita, ti inizia al senso del dolore», ha detto Claudio Risé19.

Il perdono è un banco di prova, anche per un’epoca come la nostra. Ci costringe a conoscere noi stessi e non solo gli altri. Il perdono fa sì che la nostra fede diventi esperienza20. Romano Guardini richiama in tal senso la nozione di realisation, elaborata dal card. Newman: occorre lasciare il campo del pensiero, dell’intenzione, del volere, del tener per vero, e fare in modo che parole come “perdono” diventino presenza viva, densità reale. Ma, avverte Guardini,

può essere un processo lungo, molto lungo. Capita che alcuni debbano, per anni, mantenersi al servizio della fede pura, faticosamente e lontano. Ma tuttavia viene un giorno in cui non tocca più all’uomo portare la fede, ma alla fede portare l’uomo21.

D’altra parte, l’eredità che incombe è ancora oggi quella di Nietzsche con il suo annuncio della “morte di Dio”, del “superuomo”, e di un ateismo postulatorio secondo il quale «i predicati di Dio vanno ri-riferiti all’uomo», come ha detto una volta N. Hartmann. Ma, come sappiamo, Nietzsche sbaglia bersaglio e prende per cristianesimo quel che cristianesimo non è. Il perdono è l’espressione di un’etica aristocratica e di quell’inversione del movimento dell’amore che dobbiamo al cristianesimo. Nel pensiero antico, l’amore va dall’inferiore al superiore, al contrario nel cristianesimo l’essenza stessa di Dio diventa amare e servire: «Nel malato e nel povero non si ama l’essere malato e l’essere povero, bensì ciò che c’è al di là: sulla base di quest’ultimo elemento soltanto, gli si presta “aiuto”»22. Ora la metafisica che fa da base a questa antropologia del perdono è stata perfettamente compresa da Max Scheler nelle sue indagini fenomenologiche sul concetto di persona:

Nei moti della coscienza si presenta del tutto da sé stesso – senza interpretazione da parte nostra – un ordine invisibile della nostra anima e dei nostri rapporti con il suo supremo capo e creatore. Anche il pentimento assume il suo pieno senso e ottiene il suo pieno linguaggio solo quando – oltre al suo significato ancora appartenente all’ordine della natura, di dissolvere la colpa – è sperimentato come inserito entro un contesto globale di ordine metafisico-religioso23.

Giovannino Guareschi, internato militare

Il 9 settembre 1943 Giovannino Guareschi, ufficiale nell’Esercito italiano, sceglie di non collaborare e quindi viene fatto prigioniero e inviato in un lager tedesco. Sarà liberato soltanto il 16 aprile del 1945. Un “viaggio”, di due lunghissimi anni, che si rivelerà un’autentica via Crucis. Diario clandestino, La Favola di Natale, Ritorno alla base sono le opere in cui Guareschi parla di questa esperienza drammatica. Del Diario clandestino, ci interessa quella straordinaria espressione di antropologia del perdono che Guareschi ci ha voluto lasciare:

Non abbiamo vissuto come i bruti. Non ci siamo rinchiusi nel nostro egoismo. La fame, la sporcizia, il freddo, le malattie, la disperata nostalgia delle nostre mamme e dei nostri figli, il cupo dolore per l’infelicità della nostra terra non ci hanno sconfitti. Non abbiamo dimenticato mai di essere uomini civili, uomini con un passato e con un avvenire24.

Il modo in cui Giovannino Guareschi ha trasfigurato cristianamente quell’esperienza drammatica mi pare proprio una viva espressione di “antropologia cristiana”:

In questa banalissima storia io ho avuto il peso di un guscio di nocciola nell’oceano in tempesta, e dalla quale io esco senza nastrini e senza medaglie ma vittorioso perché, nonostante tutto e tutti, io sono riuscito a passare attraverso questo cataclisma senza odiare nessuno. Anzi, sono riuscito a ritrovare un prezioso amico: me stesso25.

Simon Wiesenthal e il perdono negato

In Il Girasole. I limiti del perdono (1970), Simon Wiesenthal racconta un episodio che lo ebbe protagonista a Leopoli nel 1942. Si tratta della storia di un “perdono mancato”, un’esperienza che continuerà per molto tempo a generare inquietudine e dubbi nella vita di Wiesenthal. Un giovane SS morente, di appena 21 anni, lo chiama al suo capezzale, gli chiede il perdono per i crimini che ha commesso. Si chiama Karl, viene da Stoccarda, dice di essersi arruolato volontario, ma anche di aver ricevuto un’educazione cattolica dalla madre, di aver fatto il chierichetto e anche che suo padre “antinazista” non aveva mai accettato questa scelta del figlio26. Afferra la mano di Wiesenthal e gli racconta del delitto terribile al quale ha partecipato, un anno prima, durante un’azione di guerra contro inermi civili ebrei. Dice che sente il bisogno di parlarne con qualcuno. Un’azione nella quale un gruppo di ebrei era stato rinchiuso in una casa. alla quale era poi stato appiccato il fuoco. Ha ancora davanti agli occhi l’immagine. «Quell’orribile scena di Dnepropetrovsk non mi esce di mente… Ma ancora più orribilmente mi strazia la coscienza. Mi richiama ogni momento alla memoria la casa in fiamme e la famiglia che salta dalla finestra»27. E aggiunge: «Non posso morire… senza essere in pace con me stesso»28. Nelle parole di questo giovane emerge un sincero pentimento. Ma Wiesenthal, alla fine, decide che non può essere lui a perdonarlo. «Ho deciso, senza una parola lascio la stanza»29. Non si può perdonare per altri, conclude fra sé e sé. Ne parla con alcuni compagni di prigionia. Josek gli fa notare che non è del tutto in pace con sé stesso. «Avrei dovuto perdonare?», ecco la domanda che rimane senza risposta nella coscienza di Simon Wiesenthal. In un colloquio con un novizio cattolico, Bolek, il dubbio aumenta: aveva ritrovato la fede, era tornato ragazzino, «allora ha meritato la grazia del perdono»30. «Vedi, disse Bolek senza esitare, nella nostra religione quello che conta per il perdono è il pentimento… E lui era veramente pentito»31.

Il racconto culmina in una confessione:

So che molti mi comprenderanno e approveranno il mio comportamento verso la SS morente. Ma so pure che altrettanti mi condanneranno per non aver aiutato un assassino pentito a chiudere gli occhi in pace32.

Wiesenthal resta tormentato da questo dubbio e così lancia un appello di riflessione che sarà accolto da 47 studiosi, fra i quali nomi assai noti: Abraham J. Heschel, Franz König, Primo Levi, Salvador de Madariaga, Golo Mann, Gabriel Marcel, Herbert Marcuse, Jacques Maritain, Léopold Sédar Senghor, Albert Speer e altri.

Ontologia del perdono

Parlare di “antropologia del perdono” significa credere che con un tale atto la natura umana realizzi pienamente il suo fine, si desti a quella realtà più profonda che la costituisce in modo originario. Un’idea scoperta dal cristianesimo attraverso il concetto di persona, nel quale «viene pensato un essere originariamente proprio, ancor più originario del singolo individuo». È in questo senso che Robert Spaemann afferma:

Il perdono non pretende che l’altro disprezzi la propria specifica naturalità, ma che la scopra. Per questo esso contiene sempre anche un momento di discolpa, cioè la scoperta di un errore: «In realtà non sapevi quello che facevi»33.

Nel perdono io offro all’altro la possibilità di non definirsi attraverso ciò che ha compiuto. Gli posso dire: «Io ti permetto di essere diverso da quello che eri nel momento in cui mi hai offeso»34.

Come è possibile questo? L’uomo può parlare a sé stesso “in terza persona”,

è in grado di uscire dalla posizione centrale che ogni essere vivente naturale assume in rapporto al proprio ambiente e può così vedersi con gli occhi degli altri, come un evento nel mondo. L’uomo è cioè in grado di assumere un punto di vista esterno a sé stesso, all’esterno del suo centro organico35.

Pentimento, perdono, colpa, espiazione, punizione sono possibili soltanto a partire da questa differenza interna che costituisce l’uomo:

La moralità è possibile soltanto sulla base di questa capacità di auto-oggettivizzazione e dunque di auto-relativizzazione. Soltanto così è possibile la lingua […]. L’uomo avverte lo sguardo dell’altro, lo sguardo di tutti gli altri, lo sguardo di ogni possibile altro, lo sguardo che si dirige su di lui non provenendo da alcun luogo36.

Il “perdono ontologico” che noi siamo è

il riconoscimento della finitezza dell’altro, in ragione della quale egli non può essenzialmente renderci giustizia. Le persone naturali, finite, necessitano dunque di indulgenza. Il perdono morale “in anticipo” è il passaggio dal perdono trascendentale a quello categoriale, da quello ontologico a quello morale37.

Mi piace concludere questa riflessione con le parole dello scrittore colombiano N. Gómez Dávila: «Il domandare tace solo di fronte all’amore: “Perché amare?”, è l’unica domanda impossibile. L’amore non è mistero, ma luogo in cui il mistero si dissolve»38. Anche di fronte al perdono ricevuto e donato, il nostro domandare tace perché anche lì si dissolve un mistero.

 

 

1. J. Sacks, Alleanza & conversazione. Genesi: Il libro dei fondamenti, Giuntina, Firenze 2025, p. 459, offre questa magistrale sintesi del senso di due famosi brani di H. Arendt, Vita activa. La condizione umana (1958), Bompiani, Milano 2017, pp. 255 e 258: «Senza essere perdonati, liberati dalle conseguenze di ciò che abbiamo fatto, la nostra capacità di agire sarebbe per così dire confinata a un singolo gesto da cui non potremmo mai riprenderci […]. Perdonare, in altre parole, è l’unica reazione che non si limita a re-agire, ma agisce di nuovo e in modo inaspettato, non condizionata dall’atto che l’ha provocata e quindi liberando dalle sue conseguenze sia chi perdona sia chi è perdonato».Torna su

2. Cfr D. Konstan, Before Forgiveness. The origin of a moral Idea, Cambridge University Press, Cambridge 2010.Torna su

3. Cfr J. Sacks, “La nascita del perdono”, sul sito The Rabbi Sacks Legacy, rabbisacksorg.it. È da pochi giorni in libreria il testo di Id., Alleanza & Conversazione, cit., sulla storia di Giuseppe e i suoi fratelli; si vedano in particolare le pp. 389-461.Torna su

4.Sermones, 90, 5. Passo citato nel commento della Bibbia di Navarra, Antico Testamento, vol. 1, Pentateuco, Genesi, Ares, Milano 2002, pp. 292-293.Torna su

5. C. Angelini, La rivelazione del Manzoni, introduzione ad A. Manzoni, Promessi sposi, a cura di C. Angelini, Utet, Torino 1958, p. 9.Torna su

6.A. Manzoni, Promessi sposi, cit., p. 102.Torna su

7. Ivi, p. 101.Torna su

8. Ivi, p. 103.Torna su

9. Cfr R. Spaemann, Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno” (1998), trad. it. di L. Allodi, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 18-34.Torna su

10.Cfr J.H. Newman, La coscienza, Jaca Book, Milano 2019, p. 144.Torna su

11. Ivi, p. 90.Torna su

12. R. Spaemann, Persone, cit., p. 229.Torna su

13. J.H. Newman, La coscienza, cit., p. 144.Torna su

14. R. Spaemann, Wahrheit und Freiheit, in Id., Schritte über uns hinaus. Gesammelte Reden und Aufsätze I, Klett-Cotta, Stuttgart 2010, pp. 324-325.Torna su

15. R. Di Segni, Perdonare le offese, Marcianum Press, Venezia 2016, p. 13.Torna su

16. R. Guardini, Etica. Lezioni all’Università di Monaco, 1950-1962,Morcelliana, Brescia 2001, p. 440.Torna su

17. R. Di Segni, Perdonare le offese, cit., p. 15.Torna su

18. M. Scheler, Il risentimento nella edificazione delle morali, Vita e Pensiero, Milano 1975, p. 108, n. 34.Torna su

19. C. Risé, Il Padre. L’assente inaccettabile, San Paolo, Milano 2003, p. 11.Torna su

20. Cfr R. Guardini, La vita della fede, Morcelliana, Brescia 1965, p. 107.Torna su

21. Ivi, p. 109.Torna su

22. M. Scheler, Il risentimento nella edificazione delle morali, cit. p. 87.Torna su

23. Id., L’eterno nell’uomo (1921), Bompani, Milano 2009, pp. 151-221: p. 211.Torna su

24. G. Guareschi, Diario clandestino 1943-1945, Bur, Milano 1949, 202417, pp. 12-13.Torna su

25. Ivi, p. 11.Torna su

26.Cfr S. Wiesenthal, Il girasole. I limiti del perdono (1970), Garzanti, Milano 2024, pp. 30-33.Torna su

27. Ivi, p. 53.Torna su

28. Ivi, p. 54.Torna su

29. Ivi, p. 55.Torna su

30. Ivi, pp. 80-81.Torna su

31. Ivi, pp. 78-79.Torna su

32. Ivi, p. 94.Torna su

33. R. Spaemann, Perdono, in Id., Felicità e benevolenza, Vita e Pensiero, Milano 1998, pp. 248-249.Torna su

34. Ibidem.Torna su

35. R. Spaemann, Persone, cit., pp. 16-17.Torna su

36. Ivi, pp. 14-17.Torna su

37. Ivi, p. 228-229.Torna su

38. N. Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, Adelphi, Milano 2001, p. 117.Torna su